Di seguito pubblichiamo la relazione di suor Giancarla Zambon e padre Rinaldo Paganelli in occasione del Convegno catechistico diocesano svoltosi il 30 settembre in Seminario. A questo link trovate l’intervento di Silvia Mancini. A questo link invece, le foto della giornata realizzate da Claudia Donati.
MATURI NELLA FEDE E TESTIMONI DI UMANITÀ – ANNUNCIARE GESÙ CRISTO E ACCOMPAGNARE NELLA FEDE
Che cosa vuol dire per noi Chiesa formarsi e formare ad una fede adulta? A una fede sempre in cammino? Questa domanda ci riguarda a doppio titolo: cosa significa autoformarsi per la maturità della fede e cosa significa formare altri alla maturità della loro fede. Formare i formatori è l’orizzonte che il cammino dello scorso anno ci ha fatto compiere, nel grande orizzonte formativo si tratto ora di rivedere i nostri atteggiamenti per annunciare Gesù Parola di vita piena e bella per ogni persona. Per approfondire il tema e per iniziare, a trasformare i nostri atteggiamenti, desideriamo ripercorrere con voi un famoso incontro biblico: quello di Filippo con l’eunuco. Nel brano di Atti 8, 26-40 troviamo i passaggi che lo Spirito del Signore compie in Filippo e che compie oggi in ciascuno di noi per educarci ad annunciare Gesù in modo adulto attento alla persona e docile all’azione di Dio.
- Annunciare Gesù Cristo che conduce alla maturità della fede e dona pienezza alla nostra umanità
L’itinerario di Filippo è paradigmatico per ogni percorso di annuncio e di accompagnamento nella fede. In esso possiamo identificare tre passaggi preceduti da un altro che è piuttosto l’orizzonte globale. L’atteggiamento costante, è quello della disponibilità allo Spirito Santo (indicato come l’angelo del Signore o Spirito di Dio, o Spirito del Signore). E’ una premessa non indifferente: tutto l’agire di Filippo è un agire sotto l’azione, l’impulso, dello Spirito. Potremmo dire al posto dello Spirito. Ciò implica evidentemente che Filippo sia costantemente sotto la sua azione, non solo nel momento preciso in cui va ad evangelizzare. E’ il suo habitus costante. La docilità allo Spirito lo porta a percorrere tre passaggi, che sono anche delle indicazioni preziose per chi come noi è chiamato a svolgere nella chiesa il compito di annunciare e accompagnare nella fede, ma che sono prima di tutto tre atteggiamenti spirituali.
a) C’è da notare prima di tutto che l’angelo del Signore si rivolge a Filippo con un comando («sorgi e vai»), che Filippo esegue letteralmente (il testo dice: «sorgendo andò»). Si tratta di un ordine strano, perché invita Filippo ad andare verso mezzogiorno (più che la direzione del cammino, probabilmente si intende l’ora del giorno), su una strada che è deserta (a quell’ora del giorno è raro che ci siano viaggiatori). Nonostante questa stranezza, Filippo non pone alcuna obiezione al comando, ma viene presentato come colui che obbedisce prontamente e immediatamente. Tutto questo non fa che accentuare la straordinarietà dell’incontro con l’eunuco. La presentazione stessa dell’eunuco assumerà un senso di sorpresa: «ed ecco…»! L’impulso strano del Signore permette, in modo sorprendente, che su quella strada deserta si incontri una persona. La guida del Risorto spinge non solo ad una evangelizzazione pubblica nelle città, ma anche ad incontri personali in luoghi imprevedibili. Il primo atteggiamento è connotato da una serie di verbi in connessione: alzarsi e mettersi in cammino, incontrare, correre vicino, sentire, salire sul carro e sedersi vicino. E’ qui indicata tutta una delicata e profonda progressione di entrata in relazione con la persona destinataria dell’evangelizzazione. C’è un dinamismo interiore che spinge, un andare, un correre vicino, un ascoltare attento, un fare strada insieme. Diamo a tale prima tappa il nome di “salire sullo stesso carro”.
b) La seconda tappa è espressa da un solo versetto, molto denso, il v. 35. Qui Filippo prende la parola e “gli evangelizzò Gesù”. In italiano è difficile rendere la forza di questa espressione. Evangelizzare Gesù significa annunciare Gesù come significativo per la sua vita. In fondo, Filippo gli dà Gesù, facendogli capire che il profeta parlava di se stesso, di un altro e insieme dell’eunuco. Nella situazione di povertà radicale dell’eunuco, Gesù appare come la buona notizia. Il testo non ci riferisce la spiegazione offerta da Filippo al testo di Isaia, ma si limita ad osservare che a partire da questa scrittura egli annunciava Gesù. Tuttavia, guardando bene a questo testo scritturistico potremmo intuire il tipo di evangelizzazione messo in atto da Filippo: essa è significativa per la capacità di essere fedele al contenuto centrale dell’evento cristiano, il mistero pasquale, e insieme alla condizione dell’eunuco: fedeltà a Dio, fedeltà all’uomo. Luca, che non cita mai casualmente i passi biblici, riporta qui Is 53,7-8a e ritaglia la citazione in modo molto significativo, escludendo la parte immediatamente precedente e quella seguente, in cui si parla del servo di Isaia che è consegnato per l’iniquità del suo popolo. Il testo del servo, comprendente i temi della ‘morte per noi’, ‘per i nostri peccati’, non è da Luca ritenuto rilevante per la situazione dell’eunuco, mentre acquistano rilievo la passione e la morte di Gesù sotto l’angolazione dell’umiliazione: la morte di Gesù non è vista come morte espiatrice, ma come vicenda del servo umiliato, capovolta da Dio e diventata glorificazione. Il Vangelo diventa così fedele alla situazione dell’eunuco: anche lui è un umiliato e un escluso, anche lui guardando all’evento di Cristo può dire: “Nella mia umiliazione Dio toglierà il giudizio di condanna che c’è su di me e solleverà la mia vita. Anch’io posso far parte di quella discendenza spirituale che Cristo ha aperto con questo mistero”. La situazione di limite causata dall’atto della menomazione fisica viene riscattata dalla possibilità offerta anche all’eunuco, divenuto redento e partecipe di questo mistero di Cristo, di entrare a far parte della discendenza spirituale di Gesù e di alimentare tale discendenza attraverso l’annuncio del Vangelo. Potremmo definire questa seconda tappa “dare la Parola”, cioè Gesù.
c) La terza tappa è indicata dal v. 38: Filippo scende nell’acqua con l’eunuco e lo battezza. Concluso il percorso di evangelizzazione, improvvisamente appare l’acqua e l’eunuco dice: «Ecco, qui c’è dell’acqua; che cosa impedisce che io sia battezzato?»: le sue parole esprimono la meraviglia di aver fatto un cammino di rilettura delle Scritture in vista di Cristo, un cammino di evangelizzazione, e di poter giungere attraverso questo cammino all’acqua che è il segno nel quale egli può ricevere la salvezza. Il verbo «impedire» è significativo in Luca e presuppone molto spesso che ci siano delle resistenze che vengono vinte o che devono essere vinte. Si potrebbero richiamare diversi testi del Vangelo: Gesù invita i suoi discepoli a non impedire a chi non è dei ‘nostri’ di scacciare i demoni nel suo nome (Lc 9,49-50); allo stesso modo Gesù invita a non impedire che i fanciulli vengano a lui, benché si creda che non contino (18,15-17); inoltre minaccia i farisei perché con i loro atteggiamenti legalistici impediscono ad altri di entrare nel Regno (11,52). Ci sono resistenze umane che tendono ad escludere e che devono essere vinte perché il Vangelo possa aprirsi, perché la Chiesa possa accogliere anche coloro che sembra non possano essere accolti. Alla luce del Vangelo, dell’evento di Gesù Cristo che riscatta anche gli esclusi, che ridona vita anche agli umiliati, che accoglie nella discendenza di Cristo anche coloro che apparivano esclusi dalla assemblea di Israele, quali altre resistenze umane possiamo porre? Tutte possono e debbono essere vinte. Vanno superati tutti i pregiudizi e le limitazioni che la condizione di quest’uomo comportava. Questa terza tappa indica la partecipazione insieme a un rito/gesto che immerge nello stesso tempo in Gesù e nella comunità dei credenti. La terza tappa è dunque quella di rendere oggi per l’eunuco la salvezza di Gesù e introdurlo così nella comunità ecclesiale. Alla fine ritroviamo Filippo portato via dalla Spirito. E’ di nuovo l’orizzonte costante che è richiamato. C’è infatti una significativa inclusione: all’inizio e alla fine, come origine e conclusione, c’è lo Spirito, e l’azione di Filippo, una volta compiuta, diventa “inutile”. Quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza per ogni evangelizzatore. Segnala il carattere di mediazione di ogni accompagnamento e la necessità di lasciare pieno spazio all’azione dello Spirito e al cammino personale dei soggetti.
2. Lo stile dell’accompagnamento nella fede
A. Rispettare il dinamismo della fede (la libertà di Dio e del soggetto).
Lungo tutta la tradizione, partendo dalla testimonianza biblica, la comunità ecclesiale ha messo a punto e mai abbandonato un processo di annuncio e di accoglienza della fede che ha espresso nel dinamismo della traditio, receptio e redditio. E’ un dinamismo che rispetta la natura stessa della fede e la necessità che essa fiorisca in uno spazio di libertà.
– Traditio. La fede suppone un atto preveniente di Dio, che precede l’uomo sulle strade del suo desiderio. La fede nessuno se la può dare. E’ dono e suppone una comunità che se ne faccia portatrice e mediatrice. La prima faccia del credere è una “passività”, come disponibilità ad accogliere ciò che gratuitamente viene offerto. Il termine “traditio” può trarre in inganno: fa pensare, nel linguaggio comune, a usanze che si conservano e si riproducono senza cambiare nulla. Di fatto il contenuto dell’atto del trasmettere è un messaggio sempre nuovo, una buona notizia, una parola che fa vivere.
– Receptio. La fede suppone l’accoglienza libera, l’interiorizzazione di quanto viene offerto. Il termine “receptio” è la faccia attiva della passività della fede. Richiama un ricevimento, e quindi una festa. L’accoglienza della Buona Novella suppone un atteggiamento attivo. Ognuno accoglie a modo suo con tutto ciò che è, con la sua storia, mentalità, lingua, cultura.
– Redditio. La redditio è la fecondità della fede. Evoca la “restituzione”, la necessità di rispondere all’appello di Dio attraverso una fede che opera nella carità. E’ la fede che prende volto nel celebrare, nel testimoniare, nel servire.
Il movimento della traditio/receptio/redditio è rimasto costante nella vita della Chiesa, anche se a livello catechistico si è sbiadito con la nascita dei catechismi (a partire dal 1500, ma con accentuazioni notevoli nei secoli successivi, per le contaminazioni di tipo illuministico e neoscolastico), a favore di un annuncio ritmato sulla domanda e risposta tra insegnante ed alunno. Può essere utile, a questo proposito, far notare che il procedimento domanda/risposta proprio del catechismo di Pio X non era che il “residuo” di quel movimento di offerta/accoglienza che in maniera più lucida era salvaguardato e segnalato, ad esempio, dall’impianto iniziatico del catecumenato. Il dialogo che avveniva nella notte di Pasqua, nel fonte battesimale, tra la Chiesa e il catecumeno rappresentava il dinamismo della fede: “Credi in Gesù Cristo?” – “Credo!”. Così, per uno slittamento inconsapevole ma dalle conseguenze importanti ciò che significava e favoriva la struttura dialogale del credere, come offerta e accoglienza di una relazione, si è ridotto nel sistema della domanda/risposta dei catechismi a verificare la corrispondenza tra un contenuto trasmesso e la sua memorizzazione. La fede è un fatto relazionale, nasce e si sviluppa nella libertà, chiede l’iniziativa gratuita di Dio e la vulnerabilità di persone disponibili e recettive. Fuori di questo dinamismo non c’è fede, anche se ci può essere istruzione o socializzazione religiosa.
B. Assumere uno stile relazionale di accompagnamento
L’annuncio passa attraverso i contenuti, ma passa altrettanto (e per certi versi di più) dallo stile instaurato, dal tipo di relazione stabilito. Uno stile comunicativo in catechesi, uno stile cioè che comunichi il Dio di Gesù Cristo e non altra cosa, suppone tre atteggiamenti di fondo, che si possono esprimere con delle immagini.
1) Accogliere. Esercitarsi all’accoglienza è esercitarsi all’ascolto. Qualcuno pensa che annunciare sia parlare. E’ invece molto più l’arte di ascoltare. Il fanciullo, il giovane, l’adulto che mi stanno davanti sono un mondo da accogliere e da rispettare: è un parola di Dio rivolta a me. (Filippo che sale sul carro e ascolta le domande)
– Accogliere è far esprimere, cioè dare parola a chi spesso non l’ha, trovare il modo di mettere ciascuno a suo agio perché liberi le sue parole, quelle di superficie e quelle più profonde, nelle quali ognuno rivela il suo mondo, le sue attese, le sue paure.
– Accogliere è rispettare, cioè non manipolare le parole che ci sono regalate, né tanto meno censurarle. Spesso sono balbettii, forse oggettivamente lontani dalla fede, o da quello che noi pensiamo essa sia. Ma la parola, anche la più goffa, di un uomo e di una donna è il mistero di una libertà che si apre, un dono che ci è fatto, un mondo che invita al rispetto.
– Accogliere è far affiorare la domanda, aiutare a esprimere i malesseri, a dare nome alle paure, a prendere coscienza dei nostri talloni di Achille, là dove sentiamo che il nostro bisogno di vita è minacciato. Accogliere è dunque aiutare ad ammettere le crepe, quelle brecce che diventano invocazione e luogo dove la bella notizia della vita può risuonare.
2) Far entrare. Far entrare qualcuno in casa è aprirgli il tesoro della nostra vita. Fuori dall’immagine, il secondo atteggiamento relazionale è di far incontrare il Vangelo, mettendo a disposizione dei giovani tutto il patrimonio che ci fa vivere. E’ una specie di visita guidata ai documenti fondamentali della fede, quelli biblici, liturgici, della tradizione, e quelli viventi. In questa visita guidata il catechista non è colui che sa, ma colui che continuamente mostra e riapprende quello che lo supera. Egli è uno che ha la mappa, e che prende gusto e gioia di riscoprire ogni volta per sé, facendo riscoprire agli altri, quella Presenza traboccante e straripante che sola può riempire le nostre crepe. Far incontrare è dunque non condurre a sé, alle proprie parole, ma condurre a Lui e alla sua Parola.(spiegare le scrittura e accedere alla salvezza )
3) Lasciar ripartire. Lasciar ripartire è permettere che ognuno ridica e rielabori alla propria maniera quello che ha scoperto. Lasciar ripartire è l’atteggiamento costante di chi ha rinunciato una volta per tutte a mettere le mani sul risultato, di chi si è liberato dell’angoscia della risposta. Ognuno risponde secondo la sua misura e secondo la sua libertà.
Lasciar ripartire è coltivare la gioia di vedere che, secondo i tempi e le misure di Dio, ognuno cammina: grati per i piccoli passi raggiunti, pazienti nella speranza per quelli ancora da fare(Filippo è condotto altrove e l’eunuco prosegue il viaggio). Accogliere, far entrare, lasciar partire. Sono dimensioni profonde del comunicare che pagano: creano le condizioni per crescere facendo crescere.
Giancarla Barbon – Rinaldo Paganelli