Storia della vita consacrata in terra di Arezzo

Fino dalle sue origini la diocesi di Arezzo è stata caratterizzata dalla presenza di persone che hanno vissuto secondo gli ideali dei “Consigli Evangelici”.
S. Donato stesso, patrono della diocesi e secondo vescovo della città, prima di essere scelto a guidare la Chiesa Aretina, fece vita eremitica insieme al monaco S. Ilariano.
“Donato, fuggito da Roma a causa delle persecuzioni contro i cristiani, giunse alla città di Arezzo e venne accolto con gioia dal monaco Ilariano. Donato iniziò a vivere con lui, servendo fedelmente il monaco Ilariano. Inoltre di nascosto, senza lamentarsi servendo il Signore Gesù Cristo, era lieto nelle preghiere e nei digiuni, cantando e lodando con i salmi. Quando Ilariano sentì dire questo, rimase ammirato e chiese a Donato di non fare altre fatiche, oltre all’insegnare. Cosicché Ilariano imparò tutto quello che Donato aveva appreso a Roma dal presbitero Pigmenio.
Quando il beato vescovo Satiro si addormentò nel Signore, fu fatto un consiglio da tutto il clero e il popolo della città di Arezzo ed elessero Donato all’episcopato” (Passio Donati, I).
Siamo nel IV secolo, e proprio in questo periodo sta nascendo in Egitto e in Medio Oriente la vita eremitica e monastica. Arezzo fu quindi molto sollecita ad accogliere questo nuovo e radicale stile di vita evangelica, ben descritto nella Passio Donati: preghiera, penitenza, testimonianza e gioiosa vita nuova in Cristo.
Con il rinnovamento portato poi da S. Benedetto, morto nel 547, questo stile di vita, fondato su una mirabile Regola di vita comunitaria (cenobio), si diffuse in tutta Europa.
Sorsero ovunque abbazie e monasteri, dove all’ opera di Dio (la preghiera) si accompagnava l’opera dell’uomo (il lavoro) e il riposo. Ora et labora.
Accadde un fatto straordinario: le abbazie e i monasteri divennero i punti di riferimento di intere popolazioni. Intorno alle abbazie e ai monasteri sorsero molti dei nostri paesi. Altri ne sorsero intorno alle pievi battesimali. Testimonianza di tutto questo sono anche i nomi rimasti a molte località.
Nella diocesi aretina, per ricordare solo quelle più note, abbiamo Badia al Pino, Badia Agnano, Badia a Ruoti, Badia Prataglia, Badicorte, Badia S. Veriano, Badicroce, Monistero, Badia Largnano, Badia a Monastero, Badia S. Trinita (distrutta), Abbadia di Montepulciano (una volta in diocesi aretina), Badia Tedalda… Badia è l’abbrevazione di Abbadia, cioè Abbazia. In antico erano tutte abbazie benedettine.
La vita ordinata e tranquilla dei monasteri, nel corso dei secoli, incise molto nella società circostante. Le grandi famiglie patriarcali ripetevano efficacemente gli ideali della vita comunitaria monastica fondata sui due cardini della preghiera e del lavoro; una vita semplice e laboriosa, scandita dalle stagioni e dal calendario liturgico.
Il senso dell’ordine e della disciplina era sentito nelle famiglie come indispensabile strumento per vivere insieme: “Non c’è frate senza regola”, dice un proverbio aretino.
La fede cristiana era la forza interiore di quella giovane società che stava dando origine alla nuova Europa. Nel nome di Dio si svolgevano sia le azioni più importanti della vita, come i Sacramenti, sia quelle più umili, come la stesura di un piccolo contratto e perfino l’accensione del lume di casa al calar del sole.
“Un volgo disperso che nome non ha” (Manzoni) comincia ad acquistare una dignità di popolo, la comunità dei figli di Dio. E il monachesimo, con la sua straordinaria diffusione, ha avuto una parte fondamentale nello sconfiggere la barbarie e nel ricreare il tessuto non solo cristiano, ma anche umano, della società civile.
Bonifiche dei terreni, risistemazione di strade e ponti, costruzione di mulini e di gualchiere, regimazione della acque, salvaguardia delle foreste, coltivazione della vite e dell’ulivo…, e inoltre, trasmissione della cultura attraverso la copiatuta dei libri e dei codici antichi.
La nostra civiltà ha un debito immenso nei confronti del monachesimo, che dalla Spagna alla Russia ha civilizzato l’Europa.
In terra d’Arezzo, la bonifica della Valdichiana è iniziata per opera dei monaci di S. Flora e Lucilla dell’Olmo con la costruzione della Chiusa dei Monaci; a loro si deve anche la costruzione del grande Mulino, presso questa Chiusa, che ha fornito per secoli la farina a tutti i fornai della città.
Dalla foresta di Camaldoli, per via fluviale d’Arno, giungevano a Firenze e Pisa gli abeti per la costruzione delle Basiliche e dei palazzi.
Dalla Massa Trabaria e da Badia Tedalda, per il Tevere, giungevano all’Urbe gli abeti per la costruzione delle Basiliche romane.
Proprio ad Arezzo il monaco Guido (XI secolo) inventò il sistema della notazione su righi. Un vero e proprio alfabeto musicale, una delle più geniali scoperte dell’uomo, che ha permesso di scrivere con precisione la musica, dal canto gregoriano alle sinfonie di Beethoven, fino alle canzoncine attuali.
E se possiamo scrivere la storia di Arezzo, e anche queste poche righe, si deve alle migliaia di codici esistenti nei grandi archivi monastici del nostro territorio diocesano: Badia di S. Flora e Lucilla, Badia Agnano, Camaldoli…
Le più antiche e dirette notizie dell’esistenza di monasteri benedettini nella nostra diocesi risalgono addirittura all’anno 714, in celebri documenti longobardi del re Liutprando, che si conservano nell’Archivio Capitolare Aretino, e si riferiscono ai Monasteri di S. Angelo in Luco, di S. Pietro in Asso, ed altri “monasterioli” nella zona del senese, ma in diocesi aretina.
Considerando che si parla di una parte della diocesi aretina contestata da Siena, è lecito pensare che anche nelle altre zone della vastissima diocesi sorgessero numerose comunità monastiche.
L’Abbazia di S. Maria a Mamma, attuale Badiola, presso S. Giovanni Valdarno (Parrocchia di S. Teresa d’Avila) è ricordato ad esempio in una carta di Carlo Magno, esistente nell’Abbazia di Nonantola (Modena).
Anche nella città di Arezzo esisteva un antichissimo Monastero, dedicato a S. Benedetto; viene ricordato in un celebre documento di Carlo il Calvo dell’anno 876; era nella zona vicino all’attuale Duomo, e a quella data era già stato distrutto, forse dai Saraceni nell’849.
Il Duomo stesso, prima di diventare Chiesa Madre della diocesi nel 1203, era una chiesa benedettina, denominata S. Pietro Maggiore.

I monasteri femminili
Alcuni di questi monasteri erano certamente femminili, sull’esempio di S. Scolastica, sorella di S. Benedetto. Per motivi di sicurezza avevano la loro sede soprattutto dentro la città di Arezzo o nei paesi più grandi (Cortona, Castiglion Fiorentino, Civitella della Chiana, etc.).
La prima notizia di un monastero benedettino femminile nella città di Arezzo risale al 1149, il Monastero di S. Benedetto, ma era un monastero che esisteva da tempo. In quell’anno risulta essere già aggregato a quello camaldolese di S. Giovanni Evangelista a Pratovecchio e conosciamo anche il nome della badessa, Sofia dei Conti Guidi di Romena.
“Anno 1149. La Badessa Sofia, scortata dai Conti Guidi, se ne veniva da Pratovecchio alla visita del nostro Monistero Aretino di S. Benedetto con altre monache convisitatrici, delle quali taluna delle monache, se faceva d’uopo, veniva lasciata in S. Benedetto, passando altre delle nostre a Pratovecchio nel ritorno che colassù faceva, dopo la visita, la Badessa” (A. L. Grazini).
Questo Monastero femminile, “uno dei più illustri di Arezzo”, le cui suore venivano chiamate dagli aretini “Le Murate di S. Benedetto”, sorgeva in Via S. Clemente, dove ora è la Pia Casa di Riposo, tra l’inizio di Via Garibaldi (già Via Sacra, di cui diremo) e Via delle Fosse. Venne soppresso con le leggi napoleoniche del 1808. È rimasta la Chiesa di S. Benedetto; nel luogo del Convento c’è la struttura della Pia Casa di Riposo. Di un altro eremo benedettino femminile, esistente nel paese fortificato di Civitella della Chiana, si ha notizia nel 1276. In quella data il Vescovo Guglielmino permise alla Beata Giustina Bèzzoli di trasferirvisi, dove la beata poté realizzare il suo desiderio di intensa vita di preghiera e dove accudì amorevolmente una monaca di nome Lucia, gravemente ammalata.
I monasteri benedettini, per i loro immensi meriti, ottennero grande favore e innumerevoli beni.
Per fare solo un esempio, Ugo di Bulgari nel 1021 lasciò all’Abbazia di S. Flora e Lucilla tutte le sue proprietà, consistenti in una decina di poderi in Valdambra. Negli archivi troviamo migliaia di simili donazioni. Non si trattava solo dell’8 per mille… L’abbazia di S. Flora e Lucilla possedeva buona parte della Valdichiana aretina, Badia Agnano buona parte della Valdambra, Badia Prataglia e poi Camaldoli il Casentino…

Camaldoli
Queste grandi ricchezze portarono certamente ad un rilassamento dello spirito originario del monachesimo.
Nacque il bisogno di una riforma, che iniziò con Oddone di Cluny in Francia nel secolo X, e proseguì nei secoli successivi.
Uno dei grandi riformatori del monachesimo è stato S. Romualdo, fondatore dell’Eremo di Camaldoli, nel 1012, circa. Egli volle riportare lo spirito di penitenza degli antichi eremiti, e al tempo stesso non volle che si perdesse il senso della vita cenobitica. Per questo, dopo l’Eremo, fondò un po’ più in basso il Monastero di Fontebona, dedicandolo ai Santi Donato e Ilariano. Per ricordare i due monaci-eremiti, e per riconoscenza verso il Vescovo aretino Teodaldo che gli aveva donato la foresta e il territorio di Camaldoli per la sua opera di rinnovamento religioso.
L’unione della vita eremitica e cenobitica è la caratteristica di Camaldoli ed è ben rappresentata dal suo stemma: due colombi che bevono al medesimo calice.
L’austerità, la povertà (espressa anche nel saio di lana grezza, non colorata), la vita di preghiera e di duro lavoro nella foresta, furono un richiamo al vero spirito benedettino. La riforma ebbe un successo straordinario. Gran parte dei monasteri della nostra diocesi passarono alla regola camaldolese; nel 1113 una trentina di monasteri erano entrati a far parte della Congregazione Camaldolese. In seguito si arrivò ad oltre 70 abbazie, sparse in tutta Italia, comprese le isole. Ognuna di queste abbazie aveva inoltre sotto di sé una serie innumerevole di chiese e luoghi sacri; una vera e propria potenza spirituale, ed anche economica.
Era un’abbazia benedettina fino al 1515 anche la Cattedrale di Sansepolcro, fino ad allora in diocesi di Città di Castello, dalla quale venne separata da Papa Leone X.
Tra le prime comunità femminili spiccano il Monastero di S. Giovanni Evangelista di Pratovecchio, fondato nel 1140, e il Monastero di S. Benedetto ad Arezzo, in precedenza benedettino, di cui abbiamo parlato. Il Monastero di S. Giovanni a Pratovecchio è il più antico cenobio femminile camaldolese esistente.

Gli Ordini Mendicanti
Ma ormai i tempi stavano mutando profondamente, e dopo il Mille grandi masse di persone si spostano dalla campagna alla città o in grossi borghi fortificati.
I monasteri perdono un po’ la loro funzione aggregatrice, e tranne i nuovi ordini riformati, entrano un po’ in crisi.
In questo nuovo periodo, caratterizzato dall’urbanesimo e da una società più dinamica, fioriscono gli Ordini Mendicanti: Francescani, Domenicani, Agostiniani. Ancora una volta Arezzo è fortunata, perché possiede la Verna, che dopo Assisi, è la memoria francescana più importante. E inoltre l’Eremo delle Celle di Cortona, fondato da S. Francesco, e l’Eremo di Monte Casale, dove S. Francesco ha soggiornato.
Tra i primi seguaci del Poverello troviamo degli aretini, come il B. Guido Vagnottelli di Cortona, il Beato Benedetto Sinigardi (+13 agosto 1282), al quale si deve la pratica della preghiera dell’Angelus; ed è cortonese il primo Generale dell’Ordine, Frate Elia Coppi.
Ma il fiore più bello del francescanesimo nella nostra diocesi è certamente S. Margherita da Cortona (1247-22 febbraio 1297) vissuta al tempo del Vescovo Guglielmino degli Ubertini, benemerita anche per la fondazione dell’Ospedale cortonese e per le sue opere di carità e pacificazione.
Non meno importante la presenza domenicana, che ha avuto fondamentali centri nel Convento di S. Domenico di Arezzo (con il Crocifisso del Cimabue), a Cortona (con la presenza del domenicano Beato Angelico che vi pitturò la stupenda Annunciazione), e nel Convento di S. Maria del Sasso di Bibbiena, fondato dal Savonarola.
Ma ancora una volta è una donna la figura più straordinaria di quest’ordine: S. Agnese da Montepulciano, una santa domenicana aretina (1268-20 aprile 1317), morta al tempo del Vescovo Guido Tarlati. Montepulciano allora era in diocesi di Arezzo, e lo Spirito Santo che mosse S. Agnese fu assecondato dall’opera dei vescovi aretini che seppero valorizzare i carismi di Agnese. Non si deve dimenticare l’apporto degli Agostiniani, che in diocesi ebbero notevole importanza, con numerose basiliche e conventi (oltre ad Arezzo, anche a Cortona, a Castiglion Fiorentino, a Monte S. Savino, etc.). La santità raggiunge la perfezione nel Beato Ugolino Zefferini di Cortona (1320- 22 marzo 1367).
Ma lo spirito benedettino continuava a produrre i suoi frutti, e raggiunge i vertici della perfezione nella Beata Giustina Bèzzoli (1260-12 marzo 1319), e in S. Bernardo Tolomei (1272-20 agosto 1348) fondatore degli Olivetani, in terra d’Arezzo, canonizzato un anno fa da Benedetto XVI.
Tra i Camaldolesi spicca il Beato Ambrogio Traversari e il Beato Mariotto Allegri, ambedue priori di Camaldoli, e figure di spicco nell’epoca dell’Umanesimo; in particolare il Traversari, che contribuì alla riunione della Chiesa Cattolica con quella Ortodossa nel Concilio di Firenze del 1439.
Anche l’Ordine Carmelitano ha portato alla santità la straordinaria figura di S. Teresa Margherita Redi, di nobilissima famiglia aretina, la più giovane santa canonizzata carmelitana (15 luglio 1747-7 marzo 1770; festa 1 settembre, giorno del suo ingresso al Carmelo di Firenze).

Fiori nascosti di santità
Ma la santità, che ha raggiunto l’onore degli altari in queste splendide figure di donne, è stata vissuta nel nascondimento da migliaia di altre persone nei numerosi conventi della nostra diocesi.
Limitandomi alla città di Arezzo, parlerò dei conventi femminili che esistevano, fino alle soppressioni napoleoniche e poi italiche, in Via Garibaldi, già Via Sacra.
Era la via dei conventi femminili, ce n’erano almeno 10; per questo era detta Via Sacra. Fa una certa impressione vedere che questa via è stata poi intitolata all’anticlericale Giuseppe Garibaldi.
All’inizio, all’incrocio con la Via di S. Clemente, troviamo il Monastero di S. Benedetto di cui abbiamo già parlato, forse il più antico di tutti i conventi femminili aretini. Le monache, per la loro vita di severa penitenza e di strettissima clausura, erano molto stimate dagli aretini, che le chiamavano “Le Murate di S. Benedetto”, e anche “Le Murate di S. Clemente”. Oggi è la sede della Casa di Riposo.
Le Carceri di Arezzo, lungo Via Garibaldi, portano il nome di S. Benedetto perché sono ubicate di fronte all’antico monastero benedettino e poi camaldolese. Prima le volontarie “murate”, oggi un altro tipo di reclusi. In ogni caso, una grande penitenza per raggiungere la salvezza.

Monastero di S. Maria Novella, di Monache Domenicane
Fondato agli inizi del 1300, poco dopo quello maschile di S. Domenico, nel 1583 erano una quarantina e “poverissime”. Seguivano la regola di S. Agostino, e recitavano il Matutino prima dell’aurora. Come il precedente, fu sopresso dalle leggi napoleoniche del 1808. Fu questa la fine dei vari conventi di Via Sacra. Il laicismo napoleonico vedeva la vita di preghiera come una cosa inutile e quindi da eliminare. Intanto però incamerava i beni dei conventi, che benché poverissimi nella vita delle persone, erano ricchissimi di opere d’arte. Qui ad esempio c’era la famosa e bellissima Annunciazione dipinta dal Vasari nel 1563, finita al Louvre.

Monastero dello Spirito Santo
Le Monache erano Benedettine dell’Ordine Cassinese, cioè riformato nel XV secolo. Nel 1583 Erano 33 suore “poverissime” ed avevano solo il denaro per comprare il pane. Mancavano i soldi per acquistare olio, vino e perfino la legna per riscaldarsi. La recita del Matutitno era fatto a mezzanotte, secondo l’antica usanza monastica. Perfino il severo Visitatore Apostolico, il Vescovo Angelo Peruzzi da Sarsina, fu commosso da tanta povertà e ordinò che non si potesse superare il numero di 20 suore. Nella Chiesa vi erano preziose opere d’arte, del Barna, di Spinello Aretino e di Taddeo Gaddi. La soppressione napoleonica fece disperdere tutto. Nonostante ciò, in epoca successiva, le Benedettine ritornarono in locali adiacenti, fino al 1968; in quell’anno la scarsità di numero le obbligò a trasferirsi a Firenze, nel Monastero di Via Faentina. Portarono con sé il Corpo della Beata Giustina Bezzoli. Una doppia perdita per Arezzo. Scomparve la presenza benedettina, che da oltre un millennio aveva arricchito la nostra città, e con lei il corpo di una delle sante più amate dagli Aretini, in passato.
Monastero di S. Orsola, delle Monache Agostiniane. Era ubicato subito dopo l’incrocio con Via S. Lorentino, dalla parte della Chiesa della SS. Annunziata, dove ora è la Casa canonica. Erano 30 monache che vivevano in grande povertà; in più, nel 1583 il loro monastero era “satis quassatum”, cioè molto sconquassato, e le sorelle aspettavano che ne venisse costruito uno nuovo. Infatti così accadde. Il 19 giugno 1588, di domenica, guidate dal Vicario Generale le monache uscirono dal Convento di S. Orsola e dopo aver ascoltato la Messa nella Chiesa della SS. Annunziata, alla presenza di una folla festante entrarono solennemente nel nuovo e bellissimo Monastero della SS. Annunziata, su disegno originario del Vasari, dove ora è il Collegio femminile di S. Caterina.
Monastero di S. Caterina, anch’esso di Monache Agostiniane, ubicato in Via Garibaldi, all’incrocio con Via di Porta Buia. A differenza dell’altro però queste monache si occupavano anche dell’educazione delle fanciulle, e per questo era molto conosciuto e molto apprezzato dalla popolazione aretina. Divenne addirittura celebre nel 1550, quando fu eletto Papa Giulio III, della famiglia Ciocchi del Monte (S. Savino). Per gli Aretini fu una festa grandissima: un papa di origine aretina; era stato anche il Proposto della Cattedrale. Bruciarono perfino le porte della città, in segno di gioia.
Inoltre nel Monastero di S. Caterina c’era una nipote del papa, Suor Maria Maddalena del Monte, figlia di Baldovino, fratello di Giulio III. Poiché in quell’anno c’era pure il Giubileo, Suor Maria Maddalena ottenne dal Pontefice che gli Aretini potessero lucrare l’indulgenza giubilare senza recarsi a Roma, ma nella stessa città di Arezzo, visitando la Cattedrale, S. Francesco e la Chiesa del suo Convento di S. Caterina. Il Papa inoltre donò al Convento un prezioso Crocifisso e altri beni. Suor Maria Maddalena venne eletta Badessa (ma nel 1565, molto dopo la morte del papa) e di tre anni in tre anni fu sempre confermata, finché l’inflessibile Visitatore Apostolico nel 1583 proibì che venisse ulteriormente eletta, secondo i dettami del Concilio di Trento, che Giulio III stesso aveva condotto. Si sa che le monache erano 44, ed era uno dei pochi casi in cui le entrate bastavano al mantenimento delle suore. La Chiesa era “molto bella”, e che con le soppressioni napoleoniche tutto venne requisito e laicizzato, e infine addirittura demolito. Passata la bufera, le monache agostiniane poterono ritornare e si trasferirono nel vicino complesso della SS. Annunziata, di cui si è detto sopra. Per questo motivo, il Convento della SS. Annunziata assunse il nome di S. Caterina. Vennero poi le soppressioni italiane del 1866, e il Convento divenne un Collegio femminile, con nome di S. Caterina, che tuttora detiene. In esso si conserva il bellissimo Crocifisso che Papa Giulio III aveva regalato alla nipote Suor Maria Maddalena.
Presso Via Garibaldi, ma in Via Porta Buia, dove era la Caserma, c’era il Monastero di S. Chiara Novella. Le Clarisse di questo monastero, fondato nel 1483, scelsero la severa regola della Riforma francescana, e venne chiamato S. Chiara Novella, per distinguerlo dalle altre Clarisse di Via Sacra, di cui diremo. Gli aretini però chiamarono queste suore “Le Murate” per l’altissima penitenza, la grande austerità e santità di vita che sempre vi regnarono. “Proprio per questo il monastero fu sempre pieno e non conobbe crisi. Appena una trentina d’anni dopo la sua apertura, nel 1519, contava 50 suore: più non vi sarebbero potute stare per motivi economici” (A. Tafi). Le soppressioni napoleoniche dispersero questo fiorente cenobio, e fecero incamerare preziosissimi beni artistici, finiti chissà dove. C’erano opere di Bartolomeo della Gatta e del Vasari (in questo convento c’era una sua sorella) e di altri celebri artisti.
Poverissime lesuore, per loro stessa volontà, ma bella la loro Chiesa per amore per Cristo.
Di questo monastero non è rimasta traccia; tutto è stato demolito, per farvi una caserma, ora abbandonata.
Dalla parte opposta di Via Porta Buia, all’angolo con Via Garibaldi, nei pressi, dove oggi è il Liceo Psicopedagogico Vittoria Colonna, si apriva il Convento di S. Margherita, di Suore Terziarie Francescane. In seguito, nel 1500, qui vennero a raccogliersi tutte le Suore francescane dei conventi cittadini, tranne le Murate, e furono dette dal popolo “Minorisse”, per analogia con i Frati Minori del primo ordine. Vi trovarono accoglienza così le Suore di S. Chiara Vecchia, quelle di S. Maria del Pionta, in parte quelle di S. Spirito, ed altre ancora. Nel 1583 era il convento più numeroso della città, con bel 66 consorelle (mi immagino l’impegno della Superiora..).
La bellezza di ciò che rimane di questo convento si può intuire dal piccolo Chiostro dei primi del ‘500 che si può ancora ammirare. Il resto è stato portato via o distrutto. Un dipinto raffigurante la Madonna in trono col Bambino, opera di Margaritone, è finito a Londra; inoltre sono scomparse opere del Pecori, del Lappoli… Un affresco di Lorentino d’Andrea, con S. Francesco che riceve le stigmate, è rimasto nel muro di un’aula scolastica. I francesi non lo poterono staccare…
Continuando ora per Via Garibaldi, dopo il Monastero di S. Caterina, sempre sulla destra, c’era il Monastero di S. Croce, con la Chiesa di S. Girolamo, delle Monache Benedettine, poco prima della Chiesa della Misericordia. Anche qui c’erano una quarantina di monache, provenienti dal sopresso e più antico Monastero di S. Croce, in Colcitrone, ed erano, come al solito, molto povere, tanto che il Visitatore ne ordinò la riduzione del numero, a non più di 20. Allora c’era crisi di abbondanza…
Passata la Chiesa della Misericordia, si trovava il Monastero della SS. Trinità, delle Suore Clarisse, dove ora è il Liceo Musicale. Era un monastero relativamente moderno, costruito nel 1550. Qui trovarono riparo le Clarisse del Convento di S. Spirito (in parte erano confluite in quello di S. Margherita), poiché il Duca Cosimo I, nel fare il bastione di S. Spirito, aveva fatto demolire l’antico convento. Si trattava di un bel numero di suore, ben 42.
Il Visitatore nel 1583 ebbe notizia di una certa litigiosità tra le consorelle, soprattutto “a causa delle precedenze”… un po’ di vanità, tra donne, può accadere anche nei conventi. All’incrocio con Via Guido Monaco c’era il Convento di S. Marco Nuovo, delle Suore Terziarie Francescane. Un convento piuttosto moderno, quattrocentesco, con 14 suore “poverissime”. Tanto povere da non poter mantenere il lume a olio del Santissimo Sacramento.
Nell’attuale incrocio di Via Guido Monaco, in mezzo alla strada (la strada fatta nel XIX secolo ha spazzato via l’edificio) c’era il Monastero di S. Chiara Vecchia, delle Clarisse, il primo convento femminile francescano aretino, fondato l’anno stesso della morte di S. Chiara, nel 1255. Queste suore confluirono nel Monastero di S. Margherita, nel 1500, come si è detto.
Oltre la Chiesa di S. Agostino, con il suo Convento maschile di Agostiniani, in Piazza S. Giusto c’era il Convento femminile agostiniano delle Monache di S. Giusto; 30 persone. Con rapido calcolo nel 1500 ad Arezzo c’erano non meno di 400 suore, su di una popolazione che non superava i 5000 abitanti.

I moderni Ordini Religiosi
Con il Concilio di Trento (1545-1563) ci fu un profondo rinnovamento nella vita dela Chiesa e anche negli Ordini religiosi.
Alla vita contemplativa ora si aggiunge un’intensa vita “attiva”; ordini religiosi dediti all’insegnamento, alla cura dei malati, alla catechesi, alle opere di carità, all’apostolato, alla cultura in genere. Nascono nuovi e moltissimi Ordini religiosi, maschili e femminili.
Non possiamo ovviamente seguire le vicende di queste comunità, che hanno portato nuova linfa vitale alla Chiesa e alla società civile. Ricorderò soltanto che ai nostri giorni l’opera delle Monache e delle Suore nella Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro è preziosa e insostituibile. Non voglio fare i nomi dei vari Ordini, per non essere parziale e tralasciarne involontariamente alcuni.
Il genio femminile di Marta e di Maria si fondono nell’unica opera di evangelizzazione e di testimonianza umana e cristiana.
Per tutti ricorderò l’esempio di una giovane donna aretina del lontano 1300, la B. Giustina Bèzzoli.
Figlia unica di nobile famiglia, fin dalla fanciullezza mostrò desiderio di farsi monaca. Andando contro la volontà dei genitori, che per lei aspiravano ad una brillante sistemazione matrimoniale, all’età di tredici anni “né piegata dalle blandizie, né atterrita dalle minacce”, mantenne il suo fermo proposito di entrare in convento.
Fece così il suo ingresso nel monastero benedettino portando con sé soltanto un Crocifisso.
Fu questa la sua unica e vera ricchezza. L’amore a Cristo povero, umile, casto; e l’amore alla Chiesa, nella sua consorella Lucia che assisté durante l’infermità. Un esempio valido per tutti e per sempre.

Don Antonio Bacci

Vedi anche la pagina dedicata alla storia della diocesi.