Omelia dell’Arcivescovo nella Chiesa Cattedrale

V Domenica dopo Pasqua

10 maggio 2020

10-05-2020

Fratelli e sorelle nel Signore:

Dio ci benedica in questa domenica

In cui la Chiesa medita per la quinta volta il senso della Pasqua

 

  1. La paternità di Dio.

Dio è fedele. Ci salva e ci coinvolge. Filippo non ha capito che Gesù è il segno che le aspirazioni dell’uomo non vanno deluse. Il Padre ha mandato Gesù per liberarci dal male, Il Signore ha mandato noi a proseguire nel tempo e in ogni luogo della terra, il Vangelo e la salvezza per ogni essere umano.

Ma ne siamo capaci? Il VI capitolo degli Atti ripropone una questione sempre attuale. La prima comunità sente la difficoltà di conciliare le mense per i poveri, cioè l’esercizio della carità, con la predicazione del Vangelo. Le mense sono il segno dell’attenzione verso i più deboli, ma ancor più l’intero ambito del fare. Come si fa a tradurre in pratica il Vangelo, senza trascurare la formazione delle persone.

Gli Apostoli comprendono che non è progetto di Dio che siano essi a fare tutto. Entra nella Chiesa il principio della sussidiarietà. Di fronte alla difficoltà non si rinunzia, non si dice non c’è tempo; ci si articola, si coinvolgono gli altri cristiani. Quella volta si ordinarono i diaconi. Cosa chiede a noi il Signore? Qual è la nostra vocazione? E’ la domenica giusta per capire quale sia la nostra parte. Come il giovane Samuele abbiamo anche noi la voglia di ripetere:“parla Signore, il tuo servo ti ascolta[1].

La inadeguatezza dell’uomo di fronte al progetto di Dio è, innanzi tutto, una dimensione interiore, attraverso la quale si è indotti a invocare l’aiuto di Dio: per raggiungere il bene comune abbiamo bisogno di Dio, altrimenti se l’uomo vuol fare tutto da sé è di nuovo Babele, città della incomprensione e Babilonia, città della schiavitù. Ecco tre modi privilegiati per diventare concreti collaboratori di Dio.

E’ l’umiltà che prende atto dei dissapori e li rende fruttuosi: gli apostoli si fanno piccoli e la Chiesa diventa più grande perché “Dio provvede”.

L’obbedienza a Dio ci fa grandi. L’istituziuone del diaconato non è un fatto di organizzazione ecclesiastica, ma la valorizzazione di ogni ruolo possibile, pur di raggiungere il “bene comune”.

L’ascolto di Dio trasforma l’uomo. Gli Apostoli si riservano il servizio della Parola: non perché  sia un compito più importante di quello di servire i poveri, ma perché è quello che genera la Chiesa. Agli Apostoli, e oggi ai Vescovi e ai loro preti, è chiesto di fare visibile la paternità di Dio.

  1. La Chiesa non è una storia parallela a quella dell’uomo

In questo tempo di pandemia diventa esemplare anche in Arezzo l’impegno dei nostri medici, dei nostri infermieri e infermiere, di quanti si spendono per gli altri. È il Signore che ci coinvolge per il bene del prossimo, anche al di fuori della dichiarata appartenenza ecclesiale.

Da questo male abbiamo imparato che per risolvere il disastro la via privilegiata è la responsabilità. È un poderoso controcorrente rispetto alla cultura del disimpegno e dell’evasione in cui abbiamo per buona parte cresciuto i nostri più giovani. Occorre pensare e trovare quale sia il tuo posto nel progetto generale di Dio: nessun ruolo è da escludere in partenza. Se hai coraggio devi lasciarti interpellare sia dalla vocazione al laicato che da quella al sacerdozio, dalla proposta di famiglia cristiana, dalla vita consacrata e dall’impegno dentro la città dell’uomo, cioè dalla politica che i Papi hanno chiamato la più alta forma di carità. Bisogna scegliere se sei amico di Ponzio Pilato, che se ne lavò le mani, oppure di Cristo che si caricò della croce di tutti, per rendere possibile la speranza di ogni uomo.         Il ruolo degli Apostoli e quello della Chiesa di oggi sono come quelli dei cristiani della prima generazione: attraverso la predicazione della Parola di Dio rendere possibile  a  ciascuno di accogliere il compito che Dio gli propone. Gli Apostoli annunziano la Parola che è la verità sull’uomo. La mediazione del progetto di Dio nel tempo compete a tutti i membri della Chiesa, ma a ciascuno secondo la propria vocazione. Guai a noi se ci disinteressassimo delle vedove e degli orfani! Ma la salvezza non viene solo da fare opera sociale, ma dal rispondere alla chiamata di Dio che ci invita al bene comune.

Non ci è chiesto di costruire una società parallela: se vuoi fare come Gesù che si è “incarnato” nella storia, far Chiesa è operare dove vivi e fare la tua parte. Pietro ci dice “come si fa”: essere “pietre vive”. Una gran fatica, che però risolve.

Le cattedrali del Medioevo ponevano sulle loro facciate immagini dei buoi da tiro, a indicare la fatica di far Chiesa dove occorre sempre tirare, e le aquile che volano alto a ricordare che Dio non ci abbandona nella fatica.

A che serve tutto questo grande lavorio? Dio ha un progetto per l’uomo: vuole salvare questa tua generazione, ma lo vuol fare insieme con te: collabora! ” Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, 9 a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! 10 Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna[2].

È proprio della pietra da costruzione essere modellata per stare insieme con le altre pietre: solo così si edifica il nuovo.

A noi San Pietro stasera chiede di essere pietre vive; ci è chiesto di collaborare, di stare accanto agli altri, attutire le asperità. Di essere capaci di intendere, di passare dal ruolo, all’articolazione della realtà, ciascuno nel rispetto della diversità delle funzioni. Solo in questa sinergia si è capaci di realizzare i progetti del Signore. Così il nostro Sinodo ci ha chiesto di agire.

  1. Collaborare non è sostituirsi a Dio.

Gesù resta la pietra angolare, la chiave di volta del sistema: il leone di Giuda. “chi non raccoglie con me, disperde”[3]. Gesù stesso nel  Vangelo che abbiamo ascoltato fissa il rapporto tra Lui e ciascuno di noi, con tre modalità che sono la chiave di lettura della storia della Chiesa.  

          Gesù è nostra via: percorrendo la nostra strada insieme con lui si arriva alla meta. La tradizione ascetica suggeriva di chiederci “cosa farebbe Gesù al posto mio”: ora , qui. Come lo farebbe: i modi di Gesù sono il sacerdozio comune. Non violenza, non prevaricazione. Magari croce. Per andare dove? A costruire il Regno. Chi non si avvicina alla  Gerusalemme del Cielo è un fuori strada. Papa Francesco parlando ai giovani in Cile diceva “Domandarsi sempre: ‘Cosa farebbe Cristo al mio posto?’” E’ questa la “password” per rimare sempre connessi con Gesù: a scuola, all’università, per strada, a casa, cogli amici, al lavoro. Chiedersi “Cosa farebbe Gesù al mio posto” è “la carica per accendere la fede e la scintilla” negli occhi dei giovani”[4].

Gesù è nostra Verità: verità sull’uomo. L’esperienza di meditare la Scrittura ci  insegna l’educazione al bivio. Occorre imparare a scegliere, ogni giorno, ogni momento. La sequela Christi umanizza: è la ricerca del senso della vita e delle cose, è la questione che spiega l’inquietudine di ogni giovane.

Gesù è nostra Vita. Il progetto di Dio è il Regno. Occorre imparare a dire di no alla cultura della morte, che anche  in questa fase della storia tende a sovrastare. Costruire il Regno vuol dire mettere le nostre capacità al servizio del bene comune per la costruzione della polis. Con felice espressione Papa Paolo VI  ci chiamò tutti a edificare la Civiltà dell’amore.

[1] I Sam 3,18

[2] II Tim 2,8-10

[3] Lc 11,23

[4] Papa Francesco, Santuario di Maipiù Santiago del Cile, 17 gennaio 2018