Intervento dell’Arcivescovo per il conferimento dell’onorificenza “Giusto tra le Nazioni” a don Duilio Mengozzi

03-03-2014
Ogni volta che varco le mura di Gerusalemme – ormai sono vecchio e l’ho fatto decine di volte – sento il dovere di baciare quelle mura, che sono parte della nostra identità comune. Proprio da Gerusalemme, Yad Vashem ci dà stamani l’occasione di soffermarci su una pagina degna della nostra storia biturgense, andando col pensiero a quegli uomini che seppero essere concretamente alternativi al comportamento di chi causò l’Olocausto. E pensare che vi sono ancora dei folli che osano negarlo. È giusto fare memoria di una storia locale che ci colloca nella grande epopea della vita che vince la morte, del bene che ha la meglio sul male: vi sono temi di antica sapienza biblica, che pongono di fronte a un bivio ideale la coscienza di ogni uomo. 
Siamo qui per tornare con la memoria a una storia del passato, che afferma le nostre radici cristiane. La folla presente, composta di generazioni diverse, manifesta l’assenso verso quei valori che non vogliamo perdere nel presente della nostra città. 

Israele ha conferito a don Duilio Mengozzi la prestigiosa onorificenza di “Giusto fra le nazioni”. Fra poco più di venti giorni sarò a Gerusalemme; andrò di fronte al Muro d’Onore presso Yad Vashem, con la dolcezza di sapere che tra gli eroi là celebrati da tutto il mondo c’è anche uno dei nostri. 
Don Duilio Mengozzi era nato il 6 novembre 1915 a Pianetta di Galeata, in diocesi di Sansepolcro. A 11 anni entrò in seminario, povero anche di affetti; appena a due anni era rimasto orfano di madre: fu il primo forte dolore, che lo rese sensibile ai dolori altrui. Suo padre si risposò, come era ovvio che fosse; ma Duilio non fu mai accettato pienamente dalla nuova moglie di lui. Questo è un tema importante – cari giovani amici – per capire il rapporto con nonna Emma, una donna forte e giusta che ricorderemo tra breve: don Duilio avrebbe voluto che sua madre fosse stata così. 
Questo nostro prete, sensibilissimo, brillante per carattere e tempra intellettuale, fu mandato a studiare tra il 1934 e il 1938 a Roma. Appena ordinato, diventò parroco del Trebbio – storie di altre epoche – dove rimase per 67 anni, fino al suo 90esimo genetliaco, quando il Signore lo chiamò a sé il 17 marzo del 2005.
Alunno dell’Almo Collegio Capranica, frequentò la facoltà di Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Il 17 luglio del 1938 divenne prete. 
Il Borgo di Sansepolcro é la Sancta Jerusalem Tiberina, di cui abbiamo appena celebrato il Millenario. Tutti sappiamo che i Santi pellegrini Arcano ed Egidio, di ritorno da Gerusalemme all’inizio del secondo Millennio dell’Era cristiana, fondarono questa città, con l’intento che, alle sorgenti del Fiume di Roma, fosse il segno concreto e incarnato di quegli ideali di giustizia e di pace, che sono il nome stesso di Gerusalemme. In questo spirito ci piace salutare la dott.ssa Sara Gilad, Prima Assistente dell’Ambasciata d’Israele in Italia, che è stata incaricata di consegnare l’onorificenza alla memoria di don Mengozzi.
Questo evento ci fa misurare con una pagina importante, un Sansepolcro assai diverso da quello che noi percepiamo oggi. La Chiesa biturgense dal 1912 al 1953 fu retta dal grande Vescovo Pompeo Ghezzi, al quale si debbono numerose scelte illuminate e profetiche. Uomo da una tempra assoluta, milanese di Gorgonzola, ordinato Vescovo dal cardinale Ferrari – grande arcivescovo di Milano, un Servo di Dio – fu capace di dare prospettive grandiose alla Chiesa. Ghezzi venne qua e vi riuscì ad arrivare con un notevole ritardo, perché il suo impegno per gli operai a Milano, la sua scelta a favore dei poveri, lo rendeva poco gradito al governo liberale dell’epoca. Non gli dettero lo esequatur regio per lunghissimo tempo, per cui prese possesso della diocesi attraverso procura, ma quando arrivò si insediò e fece capire a tutti che era il vescovo di tutti e non di una parte soltanto. Ma Pompeo Ghezzi fu soprattutto il Vescovo di Sansepolcro, di cui è doveroso oggi parlare perché don Duilio Mengozzi, gli fu segretario nell’ultima parte della vita e per una triste vicenda, nel 1953, ne fu anche in qualche maniera l’aiuto più forte sacrificando se stesso. È la seconda nota che voglio sottolineare di don Duilio, capace di entrare nella logica del sacrificio di sé, pur di affermare la giustizia e i valori in cui credeva. 
Il Vescovo di cui fu segretario don Mengozzi lavorò intensamente per la diocesi: 5 visite pastorali, un Sinodo, la fondazione dell’Azione Cattolica, l’accoglienza delle Suore francescane della misericordia. Negli anni del suo pontificato biturgense ottenne l’autorizzazione al culto del beato Angelo Scarpetti, restaurò la Cattedrale, riportandola al suo primevo splendore, promosse il laicato formandolo e istruendolo. Puntò sui giovani, individuando i più dotati, tra cui Fanfani, allora studente all’Università Cattolica. Fermo nei principi e tutore della nostra identità, ottenne che Sansepolcro restasse in Toscana, facendo modificare il progetto dello Stato che avrebbe voluto appartenesse all’Umbria. Pianificò la pastorale nuova della diocesi e della città, dove, al Sacro Cuore, eresse un unico oratorio per tutti i ragazzi della città. Ridette coraggio a Sansepolcro. Ebbe anche il tempo di 40 anni di governo della Chiesa per farlo; ebbe coraggio in vari modi rafforzando la fede cattolica, secondo le linee dei pontificati che si erano venuti a succedere, togliendo l’ignoranza per quel che poté. Pensate a questo vescovo che organizza corsi di scuola per gli operai, che dalla montagna vengono giù e non sanno neppure leggere e scrivere: c’è bisogno di intervenire. Forma i cattolici diffondendo l’Azione Cattolica in ogni dove, incurante del poco favore che il governo nazionale aveva negli anni del Ventennio nei confronti dell’Azione Cattolica. 
Operò incessantemente a favore dello sviluppo della città, ottenendo per molti il lavoro. Attraverso l’amicizia con Marco Buitoni riuscì a vedere Sansepolcro con oltre 3600 operai stabilmente assunti. 
Ugualmente grande l’impegno che il Presule pose per le opere della Chiesa, sia pastorali che culturali. Restaurò la Cattedrale restituendoci quel gioiello che è il nostro Duomo. Credo che se non ci fosse stato un uomo forte e determinato non si sarebbe arrivati allo scopo. Tra gli interventi a favore del Duomo, si racconta a Sansepolcro un gesto coraggioso del Vescovo, meritevole di essere ricordato in questa circostanza. 
Quando i tedeschi avevano deciso di abbattere la Torre di Berta, per via di una lapide appostavi ostile all’Austria, con la retorica della Prima Guerra Mondiale, era stato deciso di distruggere anche la facciata del Duomo, quale ritorsione e vendetta dell’esercito occupante. L’austriaco comandante delle forze del Terzo Reich, chiese udienza al Vescovo per comunicargli che voleva concordare l’orario della distruzione, perché non vi fossero vittime. Pompeo Ghezzi si presentò sui gradini del Duomo con gli abiti pontificali più solenni dicendo: “Ditemi quando farete venire giù il simbolo della Chiesa biturgense: vi assicuro che presso la facciata del Duomo ci sarò io con tutto il mio popolo. Provate a farlo, se ne avete il coraggio!”. Di gente così ne abbiamo bisogno anche oggi, amici miei, se vogliamo uscire dal pantano!
Fino conoscitore di uomini, promosse tra i preti biturgensi i migliori sacerdoti, preparandoli per il servizio della Chiesa. Fedele a quella filosofia del governo ecclesiastico mandò a studiare a Roma don Mengozzi, avendolo scoperto capace. Lo spinse a laurearsi, poi lo scelse come suo segretario. Per rinnovare anche a Sansepolcro la pastorale, dopo gli studi in Gregoriana, mandò di nuovo il giovane a Roma, inviandolo a fare tirocinio presso Santa Lucia al Clodio, allora ritenuta parrocchia modello del nuovo stile voluto dal Papa: in quel contesto don Mengozzi intessé legami che dureranno per tutta la vita; tra i ragazzi di allora, tra gli altri, vi era il futuro giornalista Mario Pastore. 
Accanto a grandi uomini della Chiesa crescono sempre collaboratori capaci.
Don Mengozzi viene formato al Capranica dove era Rettore Cesare Federici fin dal 1930. È la generazione dei preti di Pio XII, anch’egli ex alunno capranicense. Lo stile di quegli anni fu di grande fermezza nella dottrina, ma anche grande impegno per la carità: formare pastori vicini al popolo e solleciti per le sue necessità, alieni dal carrierismo. In quel contesto si formò il “difensore degli Ebrei”, anche a rischio della sua vita. Sono gli anni del senatore del Regno Isaia Levi che, per riconoscenza verso l’opera internazionale a favore degli Ebrei, lasciò al Papa la sua splendida villa al Salario, perché diventasse un centro di azione diplomatica del Vaticano: tuttora è la sede della Nunziatura Apostolica in Italia.
Ancor più significativo delle scelte internazionali fu l’impegno della Chiesa di Roma per difendere gli oppressi dal Regime Fascista. In migliaia di casi, i perseguitati furono occultati tra i seminaristi, spacciati per operai o semplicemente nascosti nelle strutture ecclesiastiche della Capitale.
Anche in Provincia passava la direttiva della Santa Sede. Il clima spirituale e culturale del clero biturgense negli anni di Pompeo Ghezzi era molto vivace, con uomini giusti al posto giusto, pastori e uomini di cultura tuttora ricordati: mons. Terzilio Rossi a Caprese Michelangelo, grande animatore di pastorale giovanile; mons. Giovanni Battista Ravarelli in Duomo, efficace predicatore; don Ferdinando Fabbri, poi Vicario Generale; mons. Giuseppe Boni, Rettore del Seminario bravo, buono, paterno; don Nilo Conti ad Anghiari, fondatore del museo Taglieschi. 
Tra loro, pur più giovane, spiccava anche don Mengozzi, innovatore significativo: in bicicletta, in moto, ma anche deciso sulla formazione dei giovani, sia a palazzo Graziani, che al Trebbio. Insegnante prodigioso di religione alle Magistrali, guida spirituale di molte generazioni. La vita pastorale si svolgeva attorno all’Azione Cattolica, sempre più attiva, con una forte attenzione ai poveri. Vorrei ricordare ai biturgensi più giovani che Villa Serena, che mons. Enrico Merizzi, Vicario Generale, aveva riqualificato, per anni, anche dopo la guerra, fu luogo dove ospitare i rifugiati, alla gente che era senza casa. Quei sacerdoti furono capaci di fare scelte – indipendentemente dalla idea politica – in modo tale che la carità andasse comunque avanti. Questa è la Sansepolcro gloriosa che noi vorremmo rivedere anche oggi. E questa è la nostra storia comune; sono queste le nostre radici. 
Dopo le leggi razziali Sansepolcro vide una Chiesa attenta a ospitare chi era nel bisogno: partigiani, “imboscati” cioè renitenti alla leva della Repubblica di Salò, Ebrei, famiglie divise e disgregate, prigionieri fuggitivi, ecc… 
Don Mengozzi, segretario del Vescovo, fu in prima fila, facendo ancora di più: aprì casa sua al Trebbio per salvare varie persone: pare doveroso ricordare in particolare la signora Emma Varardi, ebrea, nata Goldschmied. 
Cosa successe con le leggi infami del 1938? Successe che tanta gente arrivò a Sansepolcro; già nel 1939, si percepiva di essere al confine tra l’Umbria e la Toscana, in una parte dolce e un po’ recondita, come un posto più sicuro di altri. Una storia fatta così, rese ben visibili le radici cristiane del nostro popolo. La città dei pellegrini Arcano ed Egidio tornò ad accogliere coloro che venivano da fuori.
Voglio dire alla funzionaria dell’Ambasciata d’Israele – e mi diverte molto – che il più bel gruppo di ebrei venne accolto senza discriminazioni razziali, cioè non perché ebrei, ma semplicemente perché perseguitati; per amore, senza etichette. Poi questa storia si estese a molte famiglie. Non tutti furono come don Duilio. A lui, invece, si deve una storia molto toccante, come dicevo ai più giovani figli della famiglia a cui appartennero i protagonisti di quella antica vicenda. 
Nonna Emma si trovò in difficoltà vera, perché rischiava di essere scoperta dai tedeschi: era ebrea malgrado il suo cognome di triestina italiana. Quando iniziò a rischiare, don Duilio non ci pensò due volte, la presentò come sua madre. Forse era come la madre idealizzata che non aveva conosciuto. La cosa bellissima è che questa anziana donna ebrea, riuscì a capire che non bastava salvare i suoi, bisognava salvare tutti. Per cui, conoscendo perfettamente il tedesco, riusciva a decifrare quello che a Sansepolcro altri in quell’epoca non avrebbero capito. Lei stessa riuscì a diventare un’eroina capace di aiutare gli altri. È una cosa grande e bella e stamattina ricordando don Duilio vogliamo ricordare anche lei e tutti i suoi parenti. Chi c’era accanto alla famiglia Varardi? C’era la famiglia dell’avvocato Goldstein, i Goodman e molti altri ebrei che erano qui; ma c’erano anche quelli che con un termine brutto si chiamavano “imboscati”, quelli che non vollero aderire alla Repubblica di Salò, spesso ufficiali del nostro esercito. 
Molti altri ebrei erano a Sansepolcro in quei terribili mesi del ’43-44, tra cui anche alcuni assai celebri, come lo storico della Letteratura Italiana Attilio Momigliano e moltissimi altri ancora. Fu possibile farli risparmiare alla deportazione specialmente occultandoli in ospedale e dichiarandoli “infettivi”: don Mengozzi allora era anche cappellano dell’ospedale civile. 
Il volume La via del Trebbio è una testimonianza fortissima di come anche i ragazzi di Sansepolcro quella volta – Sindaco che meraviglia di generazione che era, quella dei nonni e dei bisnonni! – si adattarono a costruire rifugi lungo il Tevere; occultarono la gente nel momento delle retate. Ragazzi che sfidavano l’ideologia avendo principi alti! 
Molti nostri sacerdoti, per aver aiutato i disperati, mai per ragioni politiche, mossi invece da vera umanità e carità cristiana, ebbero molto a patire. Alcuni furono trucidati come don Francesco Babini, don Domenico Mencaroni, don Giuseppe Rocco e don Ilario Lazzeroni. 
Altri, come il nostro don Mengozzi, che oggi riceve da Israele il prestigioso titolo di “Giusto tra le Nazioni”, onorando la Chiesa e la città intera, ebbero vita lunga ma difficile, forti testimoni di ideali di fronte alla generazione nova, capaci di mostrare fede e umanità anche in tempi burrascosi e terribili.
 Don Duilio rimase sempre fermo sui principi, fino alla morte, come i grandi preti di Pio XII. Riuscì a fare del bene anche su campi inusuali per l’epoca. Fu il primo forse in Toscana ad aver fatto un centro culturale femminile, perché le donne potessero esprimersi e non fossero considerate di meno. 
Ci capita oggi di rivisitare realtà che veramente ci fanno chiedere come mai abbiamo avuto bisogno d’Israele per ricordarci di uomini così, di persone che anche dopo decenni non hanno perduto lo smalto della qualità, la misura di Sansepolcro e della sua gente. Ognuno con le proprie capacità, con la propria cultura e intelligenza. 
Don Mengozzi che corre in bicicletta per le strade del Borgo pur di fare la carità è un’icona che vorrei non fosse soltanto fissata sul Muro d’onore di Gerusalemme, ma che ce la portassimo tutti nel cuore.