Omelia dell’Arcivescovo per la solennità di San Donato patrono della Diocesi

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San Donato che dona la vita per il popolo è elemento fondativo dell’identità cristiana in questa nostra Chiesa particolare e si esprime compiutamente nella logica del dono. Fedeli alle parole di Ezechiele profeta, e all’insegnamento di Gesù stesso, i miei venerati predecessori con magistero ininterrotto hanno illustrato questa nota caratteristica della nostra Chiesa diocesana. Donato è innanzi tutto dono di Dio: non cessa di provvedere al suo popolo. Riaffermiamo la dimensione soprannaturale dell’esperienza cristiana, che è l’aiuto che viene dall’alto, una guida che non fallisce. I cristiani riconoscono di appartenere alla communio sanctorum. Il nostro presbiterio, miei amati fratelli, vive da secoli di questa certezza forte, quella di essere da Donato stesso richiamati a un esercizio del ministero pastorale che è la ragione della nostra vita. Anche noi con Donato – con i nostri limiti, difficoltà, incertezze, tribolazioni – siamo dono di Dio per il suo popolo.

Il patrono non fu solo un evento del passato. Continua a intercedere presso Dio grazia su grazia. In questi tempi ancora una volta difficili abbiamo bisogno di aiuto: nella preghiera possiamo ottenerlo. Il Papa, in ginocchio presso l’Arca di san Donato, mi raccomandava “questi sono i santi che dopo secoli riescono ancora a riportare alla fede il popolo cristiano, occorre ripresentarne l’esempio e riproporne la presenza”. Donato, di cui i santi padri dicono che, nel suo stesso nome, esprime il proprio stile di vita, ci è maestro di generosità e di carità.

Abbiamo ascoltato insieme l’apostolo Pietro che dice come deve essere esercitato il ministero in ogni grado della Chiesa. Una Chiesa che vuole essere tutta ministeriale e dove lo Spirito ci mostra il ruolo dei laici come fondamentale, perché ogni comunità cristiana, attorno a Gesù e guidata dal presbitero, sappia ritrovare nei vari servizi e nelle varie mansioni, il proprio essere un dono.

“Piccolo il mio, grande il nostro”. Scrissero gli antichi lapicidi medioevali sulle facciate di chiese di pietra, perché i cuori tornassero ad essere di carne, capaci di amore, in grado di accorgersi delle necessità del prossimo.

Si è pastori solo per amore. Si riesce in qualche modo a raccogliere una stilla della testimonianza del grande Donato, se siamo ancora capaci di giocare la nostra vita per il Regno di Dio e per il popolo che ci è affidato. Donato, vescovo di tutti noi, ancor prima che le divisioni della storia lacerassero la nostra unità, esprime il sacerdozio nella Chiesa diocesana. Il ministro del Signore è credibile solo se sa spendersi a favore del popolo senza badare a se stesso. Questo è un ideale altissimo, miei fratelli, quello di morire poveri, dopo aver donato tutto, a volte anche ingenti fortune, per gli ultimi, i poveri, i giovani, i malati.

Fare la festa di san Donato significa ridire insieme, con questo gesto collettivo così significativo, che per Gesù siamo pronti a spendere la vita per gli altri nella concretezza del quotidiano, nelle infinite forme che la fantasia pastorale ci detta e mostra.

Dall’alto la risposta arriva. Anche in modo visibile. Il dono di nuovi seminaristi attorno a questo altare non ancora conosciuti dai più, ma presenti a questa grande assemblea, ci chiede di riflettere quale sia la fisionomia della Chiesa che Dio si aspetta che realizziamo.

Profezia è combinare preghiera e azione nel difficile compito di servire uniti al Signore nella preghiera continua per quanti ci sono affidati e allo stesso tempo essere accanto alla gente secondo l’esempio datoci dal Signore il quale, come dice l’apostolo, da ricco che era si fece povero a Betlemme, condividendo le difficoltà e le tribolazioni del popolo.

Pietro è venuto a trovare Donato. E lo ha incontrato. Il 13 maggio il Papa è giunto ad Arezzo per incontrare la nostra Chiesa diocesana e ci ha portato molti doni del Signore. La comunità cristiana si è compattata mirabilmente. Tutte le parrocchie hanno dato la loro attiva partecipazione, ognuno come poteva e sapeva. Non dimenticherò quando a monsignor Vicario Generale che interpellava il presbitero di una piccola comunità di montagna se volessero partecipare o meno, il popolo rispose: “abbiamo mandato un handicappato, quello che avevamo, siamo pochi, abbiamo scelto che fosse presente chi più aveva diritto”. Ogni aggregazione laicale ha messo a disposizione di tutti il proprio specifico, almeno in quei momenti delicati e complessi è prevalso il bene comune, senza rivalità, senza divisioni.

Soprattutto, in questo giorno di san Donato ringrazio il mio presbiterio. Mi sono sentito i miei preti accanto, con solidarietà attiva e fattiva, con l’entusiasmo ritrovato di essere noi stessi, in questa vasta e complessa Chiesa ad un tempo aretina, cortonese e biturgense, pronta a servire il Signore. Il bello della liturgia si è combinato con il buono della carità: 103.745,84 euro è la più grande raccolta per i poveri che si ricordi in questa diocesi. La somma offerta al Papa come nostra partecipazione di carità è stata affidata alla Caritas perché intervenga a favore dei bisognosi, attraverso i parroci come è giusto che sia, secondo criteri condivisi e resi di pubblico dominio. Nel presbiterio siamo tutti parte attiva e responsabile senza distinzioni e particolarità. I poveri ci aprono la via del Cielo.

Ci è caro ricordare che il discorso del Papa sul Prato è stato ripreso dalla Conferenza Episcopale Svizzera per avviare nella Confederazione Elvetica un modo più cristiano di accogliere gli stranieri. “Discorso di Arezzo”, così è stato chiamato. E che Arezzo nostra sia nella Chiesa universale ricordata per i segni che ci è stato possibile fare, è grazia di Dio. In Sansepolcro – cari giovanotti che verrete con me a Gerusalemme dopodomani, e che siete saliti con me a Camaldoli per ascoltare fino in fondo e far risuonare la parola di Benedetto XVI – il Papa vi ha detto “ora è tempo di osare”, sulla parola di Pietro scendiamo in campo a fare la nostra parte.

Papa Gregorio Magno ricorda nel primo libro dei Dialoghi, al settimo capitolo, che San Donato d’Arezzo è quel calice di cristallo riaggiustato per l’intensa preghiera del santo, è il prodigio di Donato il quale mirabilmente ricompose nella sua integrità un calice che si era spezzato. Nel linguaggio simbolico dell’antico agiografo, il calice è Arezzo, la nostra Provincia stessa, della quale toccherà anche a noi tener forte l’identità, al di sopra delle pur legittime operazioni che la comunità civile vuol fare. I pagani che provarono a spezzare il calice e che apparentemente vi riuscirono, sono quanti provano ancor oggi a dividere. Riaggiustare e ricomporre in unità è la misura del Vescovo di Arezzo, qualunque sia il suo nome di battesimo, se vuole essere successore di Donato, ma anche di tutto il sacerdozio di questa Chiesa, perché la società nostra sappia riaggregarsi per le cose che contano e per il bene comune. In questo momento in cui il lavoro manca, la Chiesa è chiamata a favorire la coesione sociale più che mai, perché l’impegno di tutti riprenda a costruire giustizia e pace.

Il millenario duplice che stiamo celebrando, nell’ascolto attivo della parola di Dio, come ci insegna Camaldoli e nel tentativo di fare Gerusalemme sulle rive del Tevere, come ci ricorda Sansepolcro, è una sfida che vogliamo raccogliere. Come Donato, tocca a noi ricomporre il calice infranto con la preghiera e l’impegno quotidiano, tocca a noi miei fratelli presbiteri ridare la vista ai ciechi accecati dalla società del consumo, dal materialismo ateo, perché memori del Vangelo di Gesù, la nostra storia si aggreghi ancora e non venga sovvertita la nostra identità ad un tempo aretina, cortonese e biturgense.

Il serafico padre Francesco, come molte volte ci è capitato di rammentare, ospite di una famiglia al Pionta, sul far della sera si affaccia alla finestra e vede nelle nostre bellissime mura merlate, un diavolerio. Chiama il frate che lo accompagna e gli dice: “In nome di Dio scendi alla porta della via Fiorentina – porta San Lorentino – e comanda ai diavoli di andarsene in nome di Dio e anche del suo servo Francesco”. Perché il ministero chiede che scendiamo tutti quanti accanto alla gente non stiamo a guardare e basta. Il piccolo frate arriva di fronte alla grande porta merlata e ripete quanto il Santo gli ha chiesto di dire e di fare. La meraviglia è che la festa continua, laddove gli aretini si accorgono che se si può sopravvivere in lite, tutti insieme si fanno questi miracoli!

Cattedrale di Arezzo, 7 agosto 2012