Giovedì Santo 2020

09-04-2020

Figli e figlie di questa nostra Chiesa:

il Signore ci sostenga con la sua Grazia

in questo anno difficile!

 

 

  1. Dio si cura sempre del suo popolo

 

L’ultimo gesto della vita pubblica di Gesù, prima di entrare nel doloroso percorso della passione, è l’Ultima Cena, con la quale assieme ai suoi Apostoli Egli avvia la Pasqua, secondo i precetti antichi e inaugura il nuovo di cui siamo parte anche noi.

Gesù agnello immolato è la negazione definitiva dell’idolatria degli Egiziani, che hanno sopraffatto un altro popolo per trarre vantaggio dalla loro schiavitù. Pecus/pecunia è l’idolatria del danaro, da cui occorre essere liberati.

Siamo chiamati questa sera a scegliere ancora per il rispetto della persona e per il recupero dell’identità di popolo di Dio, non già nelle forme esteriori come il Tau sulle porte degli Ebrei in Egitto, ma nel ritrovamento di una società che, dopo il morbo che ci condiziona, ci impegniamo a orientare, riproponendo il Vangelo nella pratica delle virtù cardinali e teologali.

Anche nel Cenacolo, Gesù con i suoi usarono le azzime, cibo per tutti nel popolo liberato, segno dunque dell’umiltà e dell’essenzialità. Giuda invece fu l’unico a pensare a se stesso, ai suoi trenta danari con cui vendette il Signore. Non si fidò di Dio. Le erbe amare sono le umiliazioni generate dal sistema. Devono ricordare che la libertà va preservata anche con sacrificio. Senza impegno, non costruiremo il nuovo.

 

  1. Il dono dell’Eucarestia

 

Gesù, pur asseverando la Pasqua antica degli Ebrei, nel Cenacolo di Gerusalemme avvia la Nuova Alleanza, sostituendo ai simboli la realtà: in quel luogo santo egli istituì l’Eucaristia e ci partecipò il Sacerdozio, affidando alla Chiesa nascente la sua presenza e il servizio al popolo, che si era conquistato con la sua incarnazione e stava liberando dal male. Si fa agnello immolato per noi, ci dona se stesso, per liberarci dalla schiavitù del peccato. Fa di noi il nuovo popolo di Dio, parte del suo corpo, che è la Chiesa. Carica su di sé le amarezze del mondo, liberamente sottoponendosi alla Passione e alla morte.

Per la grazia del Signore questo terribile morbo non ci ha tolto l’Eucaristia, anche se ha reso difficile celebrarla nelle nostre comunità. Lasciate che il mio pensiero affettuoso e riconoscente vada a ciascuno dei nostri preti e frati, che malgrado la situazione pesante sono rimasti tutti al loro posto, cercando di servire il popolo loro affidato, quasi tutti in obbedienza a quanto stabilito dalla Conferenza Episcopale Italiana.

In questa Pasqua siamo stati privati persino della Messa Crismale, nella quale da secoli si usa riunire tutti i Sacerdoti della diocesi e rinnovare le nostre promesse solenni di impegno nella Chiesa. Per questo oggi è il giorno ricordato come la Festa dei sacerdoti. Ci rallegra molto che siano con noi attorno all’Altare anche due dei Vescovi generati alla fede e al Sacerdozio da questa Chiesa diocesana,  il Vescovo Luciano e il Vescovo Franco.

Sarà facile, tra breve, ripetere le parole del Cristo all’Ultima Cena, che, sono l’impegno di Dio a essere presente in mezzo a noi. Un insostituibile dono che tocca la nostra identità. Come i quarantanove martiri di Abitene, anche noi possiamo ripetere “ sine Dominico non possumus-senza l’Eucaristia non possiamo vivere”[1]. Sapevano quei giovani africani di affrontare la morte, ma affermarono con la loro vita quanto significhi per noi, popolo cristiano, celebrare insieme l’Eucaristia.

La terribile prova del contagio diffuso, che ha reso, ai più, impossibile partecipare di presenza all’Eucaristia e ricevere la Santa Comunione, ci ha fatto ancor meglio apprezzare cosa significa per il popolo cristiano la Messa.

Abbiamo sopportato questa privazione, riconoscendo che l’intervento pubblico di evitare le aggregazioni fu atto di carità, per salvare gli altri dal male. Per un tempo che speriamo prossimo alla fine, si è ovviamente assicurata la sopravvivenza materiale, ma ci hanno privato dell’essenziale, il cibo dell’anima.

Sappiamo che anche in questo momento un numero consistenze di cristiani, non solo in diocesi, ma anche forzatamente sparsi per l’Italia, attraverso i Media si uniscono alla nostra preghiera.

L’Evangelo di San Giovanni racconta l’istituzione dell’Eucaristia, narrando come Gesù, in quell’ultima cena, si cinse d’un asciugatoio e lavò i piedi ai suoi discepoli. Almeno ci resti da questa celebrazione tristemente senza popolo, l’impegno a cui tutti siamo chiamati al servizio degli altri. Una compagnia di giostranti in questi giorni in Arezzo, ci hanno chiesto aiuto: senza popolo non avevano ragione di restare con noi. Mi è sembrato un segno per la nostra Chiesa diocesana. Celebrare senza il popolo è una iattura, che ci sottomettiamo a tollerare, solo per amore verso il prossimo. Da questo digiuno, che è una amara lezione, speriamo di raccogliere maggiore consapevolezza di ciò che ci manca. Stasera ci impegniamo a recuperare i rapporti con le persone, ad essere solidali con i vicini e con il mondo intero, attraverso la cultura e la pratica della carità.

Il Signore non vuole le cose. Come insegna Isaia Profeta[2], la vera religione non sono cerimonie, le forme esteriori, le consuetudini, ma la nostra disponibilità a costruire il Regno di Dio.

Essere apostoli, per noi essere preti memori dell’Eucaristia istituita da Gesù nel Cenacolo, in questa pandemia significa la vicinanza ai malati. Ringraziamo dalla Cattedrale i nostri medici e il personale che assicurano l’assistenza sanitaria. Sono da ricordare anche quanti si stanno rendendo disponibili a prestare volontario aiuto, ad alleviare le sofferenze degli altri, ad accompagnare i bambini rimasti soli, gli anziani costretti ad abbandonare gli affetti di una vita, condizione che forse è ancor più duro che morire.

L’intero sistema Italia, così, con la carità, manifesta la rilevanza del Vangelo. Occorre assistere i vivi, confortare gli afflitti e suffragare i morti, senza sbarazzarsi dei cadaveri con i terribili forni crematori, che abbiamo visto inseriti in certuni ospedali cinesi.

La Chiesa, come Pietro, ha bisogno che le vengano lavati i piedi, per imparare da Gesù a chinarsi sull’uomo bastonato dai briganti sulla via tra Gerusalemme e Gerico[3] e ridare speranza e pace a tutti. Questo è il compito specifico  dei Ministri del Signore.

 

  1. Il popolo di Dio, che nasce dal Cenacolo

 

Siamo chiamati stasera a recuperare il silenzio interiore, che è l’adorazione della divina presenza; ad essere ammessi al cuore più profondo della vita della Chiesa, per cogliere, progressivamente, le motivazioni della missione che Gesù ci ha affidato: “fate questo in memoria di me[4].

In questo momento difficile, sono caduti in gran parte i segni esteriori di della festa, divenuti consueti per Pasqua. Emerge da più parti il bisogno m,di interiorizzare, di vivere l’Eucarestia, perché non vada perduto il progetto di Dio nel nostro tempo, fino  a quando tutta la famiglia del Signore non sarà radunata alla mensa del Padre. Fare l’Eucarestia significa rinnovare di giorno in giorno la nostra comunione con Dio Padre e con i fratelli che Dio ci ha donato, ma anche profetizzare il futuro e la certezza che Dio non ci abbandona.

Ci piace pensare che, attraverso i Media, i cristiani che salutiamo nelle varie case uniti con noi nella preghiera, rinnovino le scelte ideali dell’appartenenza alla Chiesa. Nel pane spezzato e nel vino sparso per le moltitudini ritroviamo l’identità di popolo di Dio e la forza per sostenere la rinascita che ci attende. E’ questo il compito della grande Comunità adunata nella Chiesa diocesana e nelle singole comunità parrocchiali del nostro vasto territorio, che amo pensare stasera in preghiera con me.

Siamo la Chiesa del Signore. Da questa esperienza di umiltà, per cui ci è impedito perfino d’essere presenti, si fa ancor più forte la nostra speranza e la nostra volontà di collaborare a costruire, di qui fino ai confini del mondo, una storia tutta nuova, più bella di quella che abbiamo finora conosciuto.

Un celebre scrittore russo raccontava come nella folle esperienza di un Gulag della Siberia, un gruppo di persone costrette a vivere insieme, dopo il duro lavoro quotidiano, si rese conto che ciascuno dei presenti sapeva a mente una pagina della Scrittura e, nel momento della prova, fu di grande conforto poterla esternare agli altri[5]. Mi auguro che in questo tempo, forzati a rimanere in casa, ciascuno possa esprimere un frammento di Vangelo da vivere.

Nell’esperienza dei più giovani, l’amaro di queste settimane necessarie per vincere il male, confido che sia l’occasione per riflettere: il microorganismo cinese è solo la virulenza manifesta di un malessere della società, che con l’impegno di tutti e la forza della fede può essere sconfitto.

 

[1] Martiri di Abitene in Africa, nel 304

[2] Is 1, 11-14: “«Che m’importa dei vostri numerosi sacrifici?», dice il Signore. Smettete di portare offerte inutili; l’incenso io lo detesto; e quanto ai noviluni, ai sabati, al convocare riunioni, io non posso sopportare l’iniquità unita all’assemblea solenne”.

[3] Cfr. Lc 10, 30

[4] Lc 22, 19

[5] Cfr. A. Sinjavskij, La staffetta della fede (da una testimonianza tenuta il 12 aprile 1977 al teatro Franciscanum di Brescia)