L’omelia dell’arcivescovo per i 100 anni della Misericordia di Soci (18 ottobre 2009)

18-10-2009

La Divina Liturgia ci presenta quest’oggi il Servo di Jahwè, l’uomo di Dio che prefigura, nella lirica di Isaia Profeta, Gesù stesso. Per “giustificare molti” , per aiutarli, per salvarli dal male, è necessario farsi carico della sofferenza, non tirarsi indietro di fronte alle difficoltà. In ogni consesso veramente umano, si è significativi solo se si è utili agli altri. La fatica di rimediare con il proprio impegno alle difficoltà del prossimo “espia” , riscatta la dignità delle persone ferite dal male. Non si riesce a farlo senza sacrificio di sé. E’ come dire che non si alleviano i mali del mondo senza motivazioni interiori, senza forte coinvolgimento personale. Nella cosa pubblica, come nella Chiesa, rimediare il male richiede fatica, dedizione, sacrificio: Gesù ce ne ha dato l’esempio; per salvare tutti noi dalla rovina è andato in croce.
La storia delle Confraternite di Misericordia è un’esperienza d’amore che giunge a noi dai secoli. E’ un modo molto toscano di rispondere, coinvolgendo molti, alle necessità di chi più è nel bisogno. E’ una storia di fraternità, una storia profondamente cristiana nei fatti, sostenuta dalla fede, che ci chiede di costruire un mondo più bello dell’esistente, dove ogni persona si riconosce semplicemente alla pari degli altri; dove nessuno pretende di arrogarsi ruoli diversi da quelli del servizio. L’immagine biblica del servo di Dio che salva anche quando è disprezzato, cioè senza consenso sociale – come si direbbe oggi – svela la radice più profonda che tiene uniti da secoli i confratelli delle nostre Misericordie. Dà ragione certamente anche di questa celebrazione centenaria, che ci ha fatto salire in Casentino, per ridire la nostra interiore partecipazione ai valori, che appartengono alla nostra comune identità.
Le Misericordie sono la più antica forma di volontariato organizzato sorta nel mondo medievale. Tutti sappiamo che risalgono all’iniziativa di San Pietro Martire, che nel 1244, in Firenze, radunò alcuni cittadini, di ogni età e ceto sociale, desiderosi di “onorare Dio con opere di misericordia verso il prossimo”, nel più assoluto anonimato ed in totale gratuità.
L’appartenenza alla Misericordia è già in sé frutto di una conversione del cuore, dall’egoismo all’impegno, dal profitto alla generosità. E’ in sé un’esperienza fortemente ecclesiale. Non si opera da soli, non si cerca visibilità personale, non si agisce per cercare il proprio profitto o l’affermazione di sé. Si sceglie di diventare “confratelli”, cioè fratelli insieme ad altri, non rivendicando per sé stessi neppure il ruolo della iniziativa, ci si immette, in punta di piedi, in una storia di carità che viene da lontano e che è necessariamente più grande di noi. E’ una scelta di umiltà, dove i fatti del servizio vanno prima della stessa manifestazione degli intenti. Esprime la concretezza dei nostri avi: la fede toscana, che lascia ad altro tempo il nostro naturale gusto di discutere e dividerci, per dare il primato al servizio umile, semplice, silenzioso di chi è nel bisogno.
Molti con me ricorderanno come per secoli – ma anche fino a tempi recenti – le Misericordie hanno fatto servizio con la “buffa calata sul volto”. La nostra tradizione cristiana ha insegnato ai più giovani che la carità qualifica la persona: non importa l’apparire. Nel fare il bene non ci si deve mostrare. Agire in questo modo è una scelta culturale, oltre che virtuosa. Contesta la tendenza attuale di competere ad ogni costo, di giudicare le persone dai risultati materiali che ottengono, dalla posizione che conquistano per loro stesse. L’evangelo che oggi abbiamo proclamato così ci insegna. Di fronte ai Figli di Zebedeo che vogliono assicurarsi ruoli di prestigio, Gesù stesso interviene. Nella civiltà dell’Amore conta di più, chi più serve. Non vi è titolo più alto che essere stati capaci di portare aiuto al prossimo nel bisogno. Aiuto nelle cose, nei servizi che oggi chiamiamo sociali, ma anche nel consiglio, nell’indirizzo, nella pedagogia che scaturisce dai fatti per ridare il primato alle relazioni: a quelle opere che la tradizione cristiana chiama di misericordia spirituale, sull’esempio di Gesù Cristo, che “sa compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato”
Il servizio di coloro che sono parte di una Confraternita è, prima di tutto, una testimonianza del Vangelo della carità. La Misericordia, infatti, si qualifica non tanto per il numero di opere che compie, quanto per lo spirito con il quale presta il proprio servizio alla comunità ecclesiale e civile. Il comportamento dei confratelli è ispirato alla narrazione evangelica del buon Samaritano : si risponde con personale coinvolgimento alle necessità del prossimo. E’ anche una scelta di campo, un giudizio sul mondo ; alla fine della storia ciascuno si ritroverà dalla parte che avrà scelto: benedetti o maledetti a seguito della personale capacità di misericordia.
Tutti i figli di Abramo, con noi gli ebrei e i musulmani, riconoscono che la nota della misericordia ci manifesta quali figli di Dio. Come ogni giovane si meraviglia nella piazza del villaggio che anche chi non lo conosce personalmente lo riconosca membro dell’una o dell’altra famiglia, solo guardando i tratti del suo volto, così si riconoscono anche i figli a Dio. La misericordia è il segno di appartenenza alla famiglia di Dio, che è invocato dalle tre storie monoteiste come “il misericordioso”.
La stessa concretezza che anima da secoli le Misericordie ci chiede di fare una lettura attenta e competente delle necessità del prossimo. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” , recita il Vangelo. La necessità di provvedere ai bisogni del prossimo abbraccia la storia dell’uomo nella sua ampiezza e nella complessità. Ci è chiesto di rispondere con misericordia ai bisogni dell’uomo, di fuggire dalla tentazione di trasformare un’opera di carità nell’esercizio di funzioni sottratte alla società civile e al suo dovere di provvedere alle necessità dei cittadini. Il testo evangelico è il riferimento ultimo e costante dei vari ambiti del servizio che alla cristiana confraternita di Misericordia è chiesto di esercitare. Talvolta, l’ansia di rispondere alle esigenze delle realtà pubbliche, l’attivismo e il secolarismo di quanti si dedicano nella Chiesa alle attività caritative rischia di snaturare il senso del servizio della carità. Nella tradizione cristiana, non si “fa volontariato”, si ”è volontari”, per una scelta personale e qualificante, una scelta di servizio volontario al prossimo. Ancor prima che nell’ordine del fare, è una scelta di campo nell’ordine dell’essere.
Sono confratello della Misericordia dalla mia giovinezza, ma aldilà della mia appartenenza personale, ogni Confraternita di Misericordia ha un particolare legame con la persona del vescovo diocesano, per l’importante servizio che svolge all’interno della comunità ecclesiale e civile. Papa  Benedetto XVI nella sua prima Enciclica “Deus caritas est” ci ha rammentato il senso delle nostre scelte: coloro che si dedicano all’esercizio della carità «devono essere persone mosse innanzitutto dall’amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato col suo amore, risvegliandovi l’amore per il prossimo. Il criterio ispiratore del loro agire dovrebbe essere l’affermazione presente nella Seconda Lettera ai Corinzi: “L’amore del Cristo ci spinge” (5, 14). La consapevolezza che in Lui Dio stesso si è donato per noi fino alla morte deve indurci a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri. Chi ama Cristo ama la Chiesa e vuole che essa sia sempre più espressione e strumento dell’amore che da Lui promana» .
Il Papa ricorda che «il collaboratore di ogni Organizzazione caritativa cattolica vuole lavorare con la Chiesa e quindi col Vescovo, affinché l’amore di Dio si diffonda nel mondo. Attraverso la sua partecipazione all’esercizio dell’amore della Chiesa, egli vuole essere testimone di Dio e di Cristo e proprio per questo vuole fare del bene agli uomini gratuitamente» .
Vi è un ruolo profetico da svolgere all’interno della società. Questo fascino è quello che motiva ancora dopo molti secoli centinaia di ragazzi, in Toscana e nel mondo, a dare la propria opera alle nostre Confraternite. A questi ragazzi dobbiamo, con il nostro facile apprezzamento, anche il più difficile impegno a fornire loro le necessarie motivazioni. La Chiesa non cerca “manovalanza a basso costo” per le istituzioni che si occupano di servizi sanitari e sociali. Si industria invece di offrire agli uomini e alle donne, soprattutto ai giovani, luoghi educativi dove possano crescere con ideali alternativi a quelli dell’individualismo e del profitto personale.
Mi è caro, in questa occasione centenaria della Misericordia di Soci invitare il Magistrato a continuare ad operare, come facendo eco al Vangelo ancor oggi ci insegna il Papa, senza discostarsi mai, nelle concrete decisioni, dagli ideali cristiani.
Come l’antica “cappa” dei confratelli di Misericordia, i valori del vangelo divengano sempre più la divisa di ogni confratello e consorella. Come cintura della cappa fu per secoli il rosario, anche oggi opportune e costanti iniziative di catechesi e di preghiera siano offerte a  tutti i soci, e specialmente ai volontari attivi, affinché essi non perdano mai di vista la natura del loro servizio e siano fedeli imitatori di Cristo, modello autentico del dono integrale e gratuito di sé per la salvezza del mondo.
In questo mondo complicato e difficile, dove le sofferenze della gente si sono moltiplicate e articolate, le Misericordie possono stimolare le generazioni nuove  a crescere nella dimensione del servizio al prossimo e a scoprire la grande verità evangelica cara ai nostri santi: che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).

Riccardo Fontana
Arcivescovo