Omelia dell’Arcivescovo per la chiusura della Porta Santa della Misericordia e indizione del Sinodo diocesano

Omelia_Sinodo

Fratelli e sorelle nel Signore:
il momento che viviamo è Grazia.

1. Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno1
Il primo a capire che Gesù in croce ha vinto è il povero ladrone, con Lui crocifisso sul Calvario. Come i servi pastori di Betlemme furono i primi a credere alla voce degli Angeli, alla nascita del Signore nella grotta.
Abbiamo avviato la Liturgia con il racconto della festosa assemblea di Ebron, dove Davide fu acclamato re. Quell’evento lontano preannunziò la futura Resurrezione di Gesù, ma illumina anche la pagina finale della storia. Sì Gesù verrà riconosciuto Signore da tutti, perché con la sua morte ha vinto la morte per sé e per tutti noi umani, ha voluto che diventassimo suoi fratelli: il Padre lo ha resuscitato. Lo stesso avverrà anche a noi che con il credo professiamo la nostra fede: “credo nella resurrezione della carne e la vita eterna”2 Il crocifisso è l’uomo nuovo, il fortissimo Adamo del giudizio finale, sicuro fondamento della speranza di quanti si sono affidati a Lui, come il buon ladrone crocifisso sul Calvario, come tutti i poveri del mondo, provati dalla fragilità umana, dalla malattia non ancora vinta dalla scienza o dalla malvagità altrui.
Al termine di un anno laborioso, Papa Francesco ci ha ricordato che il tema dominante dell’esperienza di Gesù e dei suoi apostoli è la misericordia.
Si sono chiuse le porte delle cattedrali, tocca ora a ciascun cristiano aprire i cuori ad una provocazione che è quasi nuova, perché poco praticata: “beati i misericordiosi”3. Tocca a noi, d’ora in avanti, fare in modo che l’esperienza che abbiamo fatto in questi bellissimi mesi duri fino a che avremo raggiunto la Gerusalemme del Cielo.
L’ultimo dialogo di Gesù in croce è con il ladrone pentito: a lui assicura misericordia4. È come una consegna che il Signore dà a tutti noi – famuli Dei familiari di Dio – d’essere come Lui per sempre capaci di misericordia, quasi assumendola come una nuova nostra identità.
Misericordia nei confronti di un mondo provato dalla fragilità: viviamo un tempo dove perfino i valori sono diventati “liquidi”5. Gli amici di Gesù sono chiamati a passare il testimone della speranza agli uomini e alle donne del mondo, ma, soprattutto, alla generazione nuova, a chi, per legge di natura, vivrà dopo di noi. Riusciremo a trasmettere i nostri contenuti solo se saremo capaci di rendere credibile con tenerezza il Vangelo del Signore.
Ci rendiamo conto delle opere di misericordia, che sono quanto l’evangelista Matteo ha voluto proporre, gli occhi rivolti al giudizio finale, come risposta alla pagina delle Beatitudini: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”6. Tocca a noi dare seguito nel quotidiano a questo giudizio sul livello di umanesimo che vogliamo ci appartenga.
Una dimensione ulteriore della misericordia sta nell’invenzione, nella creatività, che è dono dello Spirito creatore, lo Spirito che Gesù ha donato ai suoi amici. Dobbiamo trovare i modi, i linguaggi, la volontà di compromettere noi stessi per diventare Vangelo vivente in modo credibile agli uomini di oggi. L’amore è il tesoro che Gesù ci ha lasciato in eredità, ma si gusta solo se si pratica.

2. “Cessino, ve ne prego, le parole, parlino le opere”7, così il grande Sant’Antonio affascinato dalla radicalità di San Francesco
Vogliamo raccogliere, dal testimone medievale, questa sfida; vogliamo recuperare nella novità di vita, cioè nella santità, la qualità cristiana d’essere umilmente alternativi alla cultura dominante, segnata da prepotenza, competizione, sopraffazione.
So bene che l’ideale di una fraternità da praticare nella vita quotidiana è molto alto. Questo impegno sarà perfezionato solo nella Gerusalemme del Cielo. Abbiamo cantato insieme il Salmo dell’ascesa, come i pellegrini della storia, attraverso i millenni, nella salita al colle di Gerusalemme di Giudea: «Quale gioia quando mi dissero: ”Andremo alla casa del Signore”…è là che salgono le tribù del Signore per lodare il nome del Signore…là sono posti i seggi del giudizio»8.
Questo mondo, come ha avuto un inizio, avrà una fine. Di tutto il creato solo l’uomo è un essere libero, responsabile delle sue scelte. Il giudizio non fa venire meno la misericordia di Dio, riafferma invece l’uso che ogni persona fa della propria vita. Chi non sa quanto sia difficile essere giusti? Noi cristiani non siamo migliori degli altri, proviamo a fare il possibile, confidando nella misericordia: “non gloriabor quia justus sum, sed gloriabor quia redemtus sum – non mi glorierò perché sono esente da peccati, ma mi glorierò perché i peccati mi sono stati rimessi”9 Il Signore non misura i risultati, ma le intenzioni profonde: scruta i cuori e salva tutti coloro che si impegnano a non prevaricare gli altri, a volere il dialogo con tutti come stile di vita e metodo da preferire sempre.
La “relazione” è il nome della Chiesa di Gesù, a immagine della Trinità beata: una Chiesa vera è come la rete del pescatore Pietro, fatta di un lungo canapo, che è segno della pazienza di Dio, e di molti intrecci, che sono segno dell’amore che ci lega. Il sistema di relazioni che forma la Chiesa è faticoso e, talvolta, doloroso: ma è la via scelta dal Signore.
I capi deridevano Gesù dicendo: “Ha salvato altri, salvi sé stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”10. È la logica opposta a quella del Signore. Amore è esattamente il bene dell’altro, non il proprio interesse. Il cristiano nella sua coerenza al Vangelo rischia spesso d’essere deriso o non capito. Alla fine, tuttavia, l’imitazione di Cristo è la scelta della “parte migliore”, sull’esempio di Maria, la sorella di Lazzaro, che gli antichi vollero a far luce nelle invetriate della nostra cattedrale11.
Ritrovarci insieme a pregare è un momento di gioia intensa, appagante, confortante. È significativo che quest’oggi tornino nella Chiesa Madre le Comunità, il Presbiterio, i Religiosi e le Religiose e un grande numero di Laici. Sono qui a dire, insieme con me, la fede che ci accomuna: a riconoscerci peccatori, ma anche sicuri di essere già salvati dalla misericordia di Dio.
L’apostolo Paolo insegna che la croce è la vittoria di Cristo che assicura la salvezza, perché con il suo sacrificio è morta la morte: «Per mezzo del Battesimo siamo stati sepolti insieme a Lui nella morte affinché, come Cristo fu resuscitato dalla morte, per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova»12. Il maligno credeva di aver avuto la meglio: e si sbagliò. Dio è morto ma il Padre lo ha resuscitato, dopo tre giorni.
È il riposo di Dio, l’Hexameron di Ambrogio e dei Padri latini, che sanno di poter contare sulle novità di Dio che ci aspettano, l’ottavo giorno13. Dio crea l’uomo per manifestarsi Egli stesso misericordioso. La passione del Signore, il riposo di Cristo nella morte redentiva, rappresenta il senso della creazione, prefigurato dal riposo di Dio al termine dei sei giorni. Perfino il peccato, che è in ogni modo male, consente a Dio di rivelarsi come colui che perdona.
La vita è come una lunga strada, dalla quale si esce per andare alla festa. Occorre arrivare preparati, cioè avere la gioia nel cuore, la serenità delle opere. Ci vuole la pazienza del seminatore, che sa spargere il buon frumento tra le zolle, nella certezza che, a tempo opportuno, da un solo chicco di grano uscirà una spiga. Così avviene nel campo di Dio che attende con pazienza la messe copiosa, che è il sogno d’amore dello Spirito da cui tutti saremo raccolti: il miracolo sarà che ci riconosceremo fratelli e sorelle, nella pace.

3. Sinodo: andiamo insieme al Corso, per fare strada con la gente.
Al termine di questa celebrazione scenderemo per la via principale della città, senza supponenza, per camminare insieme con la gente. Troveremo il corso pieno di giovani, con le loro storie d’amore e le incertezze della loro età. Ci saranno anche i miei coetanei, ci saranno i vecchi, e forse i poveri e gli handicappati. La Chiesa vuole incontrare l’umanità, così come è, e proporre a tutti di andare avanti.
Il Sinodo è camminare insieme, fare un pezzo di strada per raggiungere una meta. Cammineremo fino al Canto de’Bacci, per poi fare una sosta significativa in San Francesco, nel luogo dove i primi discepoli del serafico Padre riaccesero lo zelo della Chiesa di S. Donato, convinti che la fede fosse viva sotto la cenere. Seppero farlo coinvolgendo tutti: i Camaldolesi di San Michele, i Cassinesi di Badia, i preti diocesani, il ricco laicato aretino e i poveri del territorio.
Andremo nella grande basilica dove ancora attendono la resurrezione il Beato Benedetto Sinigardi, primo Custode di Terra Santa, aretino come voi che mi ascoltate, e frate Ranieri e frate Giovanni d’Arezzo, i testimoni del Perdono di Assisi, la prima grande esperienza giubilare.
Andremo là ad annunciare il nostro desiderio di fare un Sinodo, dopo doverosa preparazione, per incontrare tutti, per ascoltare ciascuno, per valorizzare tutte le esperienze umane che incontreremo, per dire a tutti che, oltre alle storie di un’economia che ci ha condotto alla crisi, c’è anche per ogni uomo una dimensione soprannaturale e spirituale che appartiene a tutti e non si corrompe, non va in crisi.
Andremo in San Francesco invocando i Santi, nostri compagni di strada in questo percorso che vuole essere semplice e bello. Così Dio ci aiuti e Santa Maria, Madre del Conforto, ci apra la strada.