Omelia dell’Arcivescovo nella V domenica di Quaresima

Arcivescovo-Terranuova
Stazione quaresimale a Terranuova Bracciolini per la Zona Pastorale del Valdarno

 

Fratelli e sorelle nel Signore,

           

La Quaresima intera è modellata sull’esperienza pasquale dell’antico Israele, condotto da Dio dall’esperienza della schiavitù in Egitto, alla libertà della Terra promessa. In questa quinta tappa del nostro cammino verso la celebrazione annuale della Pasqua, in attesa del passaggio, al di là della morte, verso la Città di Dio, anche a noi viene offerto un itinerario di riflessione.

 

1. “Ecco io faccio una cosa nuova”[1]
Venendo in Chiesa, portiamo nel cuore la speranza di trovare una via d’uscita alle difficoltà che la cronaca da tempo ci ripropone. Qualche volta pare di dover assistere a uno spettacolo già visto e poco piacevole. Sentiamo disagio nei meandri della vita sociale, nelle disfunzioni della politica, nella crisi dei valori sui quali abbiamo costruito la nostra vita. Alcuni vengono provati nella famiglia stessa; vi sono difficoltà nei rapporti tra i coniugi e con i figli. Occorre andare molto indietro con la memoria per ritrovare momenti difficili per il lavoro e l’economia delle famiglie simili a quelli che stiamo vivendo dovunque ti giri attorno. Molti faticano a trovare il senso di questo difficile passaggio della storia.
La voglia di concretezza e l’uggia di fronte alla banalità che dilaga, alle indebite semplificazioni che mortificano il vivere comune: inducono a riflettere sui temi fondamentali, hanno di per sé valore in ordine alla ricerca di Dio e al significato della nostra esistenza.
A noi cristiani è chiesto di provare a fare una lettura teologica di questi sentimenti, prendendo le distanze dalla superficialità che dilaga, cercando nella Parola di Dio la via d’uscita da questo inospitale deserto dell’anima, che abbrutisce e condanna a non avere spessore, a non sapere più che cosa rispondere agli interrogativi di senso: quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando[2]; ossia chi, cosa, quando, dove, perché si vuole nel nostro mondo.
Il “nuovo” è sempre divino: sia perché è il Signore che creò l’esistente, facendo per primo cose nuove; sia perché lo “Spirito Creatore” è lo spirito di Dio: non c’è arte, intuizione, ricerca del bene che non abbia una partecipazione all’opera di Dio. Tutto ciò che è nuovo, in qualche modo è opera Dei, senza di Lui non c’è avanzamento nella storia né progresso umano.
Vecchio è solo il peccato. L’espressione “grande vecchio” è nome del Maligno. Nel male non si riesce a essere mai originali. Il male è quindi classificabile, prevedibile, conosciuto. Nel male non c’è avventura, è solo apparenza.

  

2. Un’esperienza è veramente alternativa: “Conoscere Lui”[3]
La pagina della Lettera ai Filippesi è un discorso sul metodo: non si può essere cristiani senza Cristo. Il rapporto con il Dio dei cristiani si fonda sulla fede, non soltanto su adempimenti di religione. Già i Profeti avevano messo in guardia il Israele antico dalla tentazione di ridurre l’esperienza del popolo di Dio ad azioni da compiere o comportamenti da evitare. Allora essi dissero che non bastano i sacrifici a salvarci, né le consuetudini acquisite fin da bambini.
Quanto il Signore si aspetta da noi, per riconoscerci suo popolo è l’adesione del cuore al Vangelo. Non bastano le labbra. Occorre che la Parola sia interiorizzata e allora lo shemà, l’ascolto, diventa l’avvio di un dialogo costante con il Signore, che ci trasforma. Solo se la Parola è compresa e fatta risuonare nella coscienza diventa l’aiuto di Dio, che si china su di noi e ci salva, ci fa diventare quanto la tradizione liturgica antica  chiama famuli Dei, per definire i cristiani. Oggi ti è chiesto di scoprire dentro di te se davvero sei “di famiglia”, di casa con Dio, che è la premessa a quella espressione del Vangelo, bellissima, con cui i discepoli e tutti noi siamo chiamati  «oi eautou», i suoi, quelli di Gesù.
Questo rapporto nuovo trasforma la preghiera stessa in una risposta a Dio che per primo ci ha interpellato; esprime confidenza, assicura la comprensione di Dio verso i nostri problemi, cioè ci fa accedere alla misericordia.
La preghiera diventa il sostegno della novità cristiana, a cui tutti aspiriamo, liberati dal male.
La fede è certamente fidarsi di Dio; è anche prendere per vero quanto ci dice. Ma il “conoscere Lui” della Lettera ai Filippesi, ci fa compiere un ulteriore passo: diventa partecipare al progetto di Cristo. L’esperienza di Cristo “spinge”[4] a trasformare il mondo: il servizio che è chiesto a tutti i cristiani.
La “perfezione”[5] cristiana che Paolo illustra ai cristiani di Filippi è una continua ricerca del nuovo, una sequela nella logica dell’Esodo: un percorso nel deserto della vita, finché non si è pronti per la “Terra promessa”. Credere è un verbo di moto.

  

3. “D’ora in poi non peccare più”
L’adultera del Vangelo di oggi esprime la miseria di tutti noi, che siamo stati poco fedeli a Dio. Ci siamo svenduti, rispetto agli ideali giovanili con cui aderimmo al Vangelo.
Anche per il caso nostro personale, anche per la sua Chiesa, che talvolta sembra vacillare, essere poco credibile, Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.
La giustizia è diversa dal diritto: anche nelle vicende complesse che stiamo vivendo nella vita pubblica del Paese, la proposta cristiana si fonda sull’appello alle coscienze. Se riusciremo a chiamare ancora con i loro nomi le virtù e i vizi, anche la nostra vita personale, oltre che quella associata, riprenderà quota.
Questo cammino che ci è chiesto di fare nel sacrario delle nostre coscienze nell’ultimo tratto di strada che ci separa da Pasqua ci fa contemplare la grandezza dell’Amore di Gesù, crocefisso dagli uomini e resuscitato da Dio. La legge condanna, ma la Grazia ci salva.
L’antica sequenza pasquale ci ricorda che questo cammino interiore non avviene senza fatica. Anche nella nostra esperienza di persone “mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus” la morte e la vita si sfidarono a un duello mirabile: il Signore della vita, morto, ora regna vivo”[6].
L’Annunzio pasquale è la fonte della nostra speranza: c’è perdono per tutti. Dio a noi chiede soltanto di essere “azimi di sincerità e di giustizia”: non usare più il vecchio lievito, la vecchia logica dell’uomo caduto nel peccato. Occorre fare uno strappo con la vita precedente e allora sarà Pasqua.


[1] Is 43,19

[2] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, prima parte della seconda parte, questio settima, articolo terzo

[3] Fil 3,10

[4] Cfr. 2Cor 5,4

[5] Fil 3,12

[6] Wipone alla corte di Corrado II il Salico, Sequenza Victimae Pascali Laudes