Omelia del Cardinale Scola pronunciata il 14 settembre a Monte San Savino

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1. Con commozione ringrazio voi tutti, autorità religiose e civili ed in particolare l’Arcivescovo Riccardo per questo invito che mi consente di celebrare nello stesso tempo con voi la preziosa Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il 150° anniversario della nascita del Servo di Dio Giulio Salvadori e di abbracciare il popolo di questa città e di questa terra che diede i natali a Giulio III[1]e al Sansovino[2].

 

2. Il paradosso cristiano
Nel titolo della Festa di oggi – Esaltazione della Croce -, nei due termini che sembrano uno la negazione dell’altro, c’è tutto il paradosso cristiano.  

  1. La croce infatti è simbolo di sofferenza terribile, un patibolo infame ed infamante, riservato dai romani agli schiavi. Già l’Antico Testamento (Dt 21,23) stigmatizzava come maledetto chidalla croce. Dal tardo Medioevo fino all’arte contemporanea le rappresentazioni della Croce ne recepiscono soprattutto questo carattere straziante, al limite del tragico (un esempio per tutti: la Crocefissione di Grünewald).
  2. Eppure – ci farà dire il Prefazio – «Nell’albero della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi [il Maligno, autore della morte] dall’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto» (Prefazio). Per questo l’arte paleo cristiana e dell’Alto Medioevo era solita rappresentare la Croce gloriosa. Il corpo di Cristo, pur recando tutti i segni della Passione, era rappresentato con gli occhi aperti di chi, vittorioso sulla morte, gode la visione della vita eterna.
  3. «Nostra gloria è la croce di Cristo, in lei la vittoria» (Ritornello del canto eseguito dal coro all’Introito). Da maledizione la Croce diventa per noi vanto. E, con San Paolo, possiamo dire: «Nel dolore, lieti» (cfr 2Cor 6,10).

3. La Croce rivela la potenza di Dio
Infatti, nell’Innocente Crocifisso la croce da strumento di condanna diventa strumento di salvezza in forza del. dono di sé. «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Vangelo, Gv 3,17).
Il Figlio di Dio si fa servo per amore dell’uomo: «Svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò» (Seconda Lettura, Fil 2, 7-9). Ritorna il paradosso cristiano.
«La Croce è la massima rivelazione della potenza di Dio. La potenza di Dio è infatti la potenza del suo Amore. Ora la potenza dell’amore non consiste nel dimostrare una tale forza da costringere il cuore dell’amato a corrispondere, togliendogli ogni libertà. La forza dell’amore consiste semplicemente nel dimostrarsi: nulla è più forte dell’amore nella sua debolezza, nulla è più debole nella sua forza» (San Pietro Crisologo). Del resto che il sacrificio sia la condizione necessaria per l’amore lo sanno bene tutti gli sposi e i genitori qui presenti. Il sacrificio, lungi dallo spegnere la capacità affettiva, la potenzia e la dilata. «Ci è dato assai di più di quello che abbiamo offerto noi – scrive Giulio Salvadori – con la carità che è come il sole e si estende sopra gli estranei come sopra i parenti, sopra quelli che naturalmente non ameremmo come sopra i prediletti» (Lettera a Luigi Costantini, 1898).

4. Il valore del dolore e della morte
Ogni dolore – fino alla prova estrema della morte – se vissuto nella Croce di Cristo partecipa del suo valore salvifico. Lo abbiamo visto, qualche giorno fa, nel congedo del Card. Carlo Maria Martini. Durante la recente visita alla vostra Diocesi, Benedetto XVI nel discorso che aveva preparato per la Verna cita l’impressionante Preghiera dell’Absorbeat di San Francesco: «“Rapisca, ti prego o Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell’amor tuo, come tu ti sei degnato di morire per amore dell’amor mio” (FF, 277)». E aggiunge: «La contemplazione del Crocifisso ha una straordinaria efficacia, perché ci fa passare dall’ordine delle cose pensate, all’esperienza vissuta; dalla salvezza sperata, alla patria beata. San Bonaventura afferma: “Colui che guarda attentamente [il Crocifisso] … compie con lui la pasqua, cioè il passaggio” (ibid., VII, 2)» (Benedetto XVI, Visita ad Arezzo, La Verna e San Sepolcro 13 maggio 2012).
La conversione del nostro Servo di Dio è potente testimonianza di questo passaggio. In una lettera all’amico Fogazzaro egli ne parla così: «Io sono tornato cristiano: e non solo per una mossa del sentimento irrequieto; ma per bisogno imperioso della ragione che, con un’analisi lunga, minuta, terribile, m’ha condotto al fondo della vita» (Lettera ad Antonio Fogazzaro). Fides et ratio. Fede e ragione, inevitabile intreccio, motore imprescindibile anche per l’esistenza dell’uomo post-moderno.

5. «Sia che viviamo sia che moriamo siamo del Signore»
«Sia che viviamo sia che moriamo siamo del Signore» ci ricorda ancora l’Apostolo. E questa appartenenza vissuta illumina con la sua novità ogni aspetto della vita – la letteratura e l’arte, l’educazione, la cultura e la politica… -, come mostra la fulgida testimonianza del Servo di Dio Giulio Salvadori. In un contesto culturale spesso ferocemente nemico di Dio e della Chiesa egli rischiò con coraggio la sua fede, sempre vivendo la carità nella verità.
Sono stato introdotto alla conoscenza di Giulio Salvadori dal mio predecessore Card. Giovanni Colombo che lo descrisse con stringate parole assai attuali in questi giorni di inizio del nuovo anno scolastico: «Non saliva mai in cattedra. Sentiva il Vangelo che glielo proibiva. Uno solo è il maestro. Restava in piedi».
Mi ha colpito la lettera, scritta qualche giorno prima della morte, a Giovanni Gentile in cui, con fermezza ma senza ombra di ostilità, Salvadori rifiuta l’invito a collaborare alla Enciclopedia Italiana, la più prestigiosa opera culturale italiana dell’epoca: «Grazie a Dio, formato per rendere testimonianza alla verità, ho cercato di renderla nella scuola e negli scritti come ho potuto» (19 settembre 1928). Proprio questo suo sguardo fermo di cristiano non gli impedì l’universale apertura ad ogni fratello uomo. Lo testimonia l’ebreo Luigi Luzzatti, alta figura di politico e di pensatore, che nell’aprile del 1913 scrisse una lettera al Ministro Credaro, con la quale si faceva interprete di una manifestazione di giovani perché il Salvadori fosse chiamato all’università di Bologna quale successore del Pascoli. Scrisse: «Il Salvadori è il Santo delle lettere italiane, a me piace e giova che sia credente, ma non reca nel suo apostolato letterario nessuna bieca passione teologica. Tanto è vero che tra gli studenti che lo propongono vi sono dei liberi pensatori. La commissione che venne da me è composta di non credenti».

6. Guardiamo al Crocifisso
Guardare attentamente il Crocifisso – come ci ha richiamato il Santo Padre – si rivela come la strada più semplice della nostra conversione. Invochiamolo da Maria, la prima tra noi che lo ha sperimentato di persona: la Vergine Addolorata, di cui domani la Chiesa ci farà celebrare la memoria. Amen



[1] 1. Giulio III, L. Giovanni Maria Ciocchi Del Monte (1487-1555), papa del 1550, riaprì il Concilio di Trento e fu un grande mecenate (per lui operarono Michelangelo e Palestrina).
[2] 2. Andrea Sansovino (1467-1529) scultore e architetto. Le sue prime opere in terracotta invetriata in stile robbiano sono ora custodite nella chiesa di Santa Chiara a Monte San Savino. Suo capolavoro “Il Battesimo di Cristo” a Firenze.