Avvio del Sinodo diocesano. Omelia del vescovo Riccardo

cattedrale
  1. Perché un Sinodo diocesano?

         La Scrittura nella pagina che abbiamo ascoltato quest’oggi, dice “Un cuor solo e un’anima sola”[1], questo fu il progetto delle prime comunità cristiane.

         Il Santo Sinodo, i cui lavori andiamo ad avviare tra breve, è il più forte segno di unità, ma anche la scelta di riprendere il dialogo con tutti, con chi si definisce credente, ma anche con chi sceglie di definirsi non credente. Nell’ascolto vicendevole dei 500 delegati, eletti nelle parrocchie, nelle unità pastorali, nelle foranie, nelle sette zone della Diocesi, si raccoglie la voce di un popolo intero, che, in questa fase della storia, si pone idealmente tre domande: chi siamo? Cosa ciascuno può fare? Come far arrivare il Vangelo a tutti, in Terra di Arezzo, sia a chi è qui da sempre, come pure a chi, da lontano, è giunto tra noi.

         Abbiamo alcuni obbiettivi da conseguire. L’identità della nostra Chiesa si fonda prevalentemente sul progetto, che il Sinodo costruirà con l’ascolto di tutti. La ricca storia che ci appartiene è il background su cui fondarci, la casa comune da riscoprire, per avviare ancora il cammino in uscita, per ridire la bellezza del Vangelo, innanzitutto alla generazione più giovane.

         È la domenica della misericordia. Vogliamo chiedere perdono a Dio per le occasioni perdute, per le testimonianze sciupate. Perdono anche per i contro-segni che non siamo riusciti ad evitare e che hanno aperto ferite, che occorre curare.

         “Questo è il giorno, che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!”[2]; lo sarà, se non avremo paura del nuovo, se ritroveremo l’umiltà dell’ascolto, con l’atteggiamento interiore, che il Signore parla anche attraverso gli eventi.

         Il Sinodo può diventare una nuova Pentecoste per questa Chiesa. È dono dello Spirito, che noi invochiamo insieme, perché “è lo Spirito che dà testimonianza”[3]. Lo Spirito parla, in particolare, attraverso la sapienza: quella degli anziani, ma anche grazie alle aspirazioni di giustizia e di pace dei giovani, come avvenne con di Daniele profeta[4].

         Ci sono molti che non rifiutano la fede, ma trovano difficoltà a ritrovare il loro posto in questa Chiesa: scopriamo il perché. Abbiamo forse fatto prevalere il moralismo sulla contemplazione del volto di Cristo nella Parola di Dio, nelle sofferenze del prossimo, nel distacco dai beni materiali, nella poca coerenza con il Vangelo. Vogliamo andare incontro ad una generazione nuova, come il Buon Samaritano[5], che, pur essendo straniero in Israele, si chinò sulle ansie altrui e cercò di capire. Si offrì di far salire il mal capitato sulla propria cavalcatura. Offrì uno spazio di libertà.

         Quanti siamo pronti a ricominciare, ancora una volta con il Vangelo, vorremmo imitare Gesù, che si rende disponibile con Nicodemo[6] a parlare fino a notte fonda, pur di aiutarlo a ritrovare se stesso.

         Papa Francesco ci chiede di recuperare lo Spirito sinodale: “La sinodalità ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico. Se capiamo che […] Chiesa e Sinodo sono sinonimi, perché la Chiesa non è altro che il camminare insieme del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore, capiamo pure che al suo interno nessuno può essere elevato al di sopra degli altri. Al contrario nella Chiesa è necessario che qualcuno si abbassi per mettersi al servizio dei fratelli lungo il cammino”[7]. Il nostro convenire insieme di quest’oggi per fare Sinodo è dunque un atto di obbedienza alla Chiesa.

2. Gli amici di Gesù si mettono al servizio degli altri

         Il Papa dice che ci siamo abituati ad una Chiesa clericale, dove tendenzialmente, tutto fa capo al prete; mentre il laicato, troppo spesso, vorremmo che fosse il popolo di esecutori di ciò che altrove è stato deciso.

         Già San Paolo descrive la Chiesa come un corpo umano[8], dove le differenze sono risorse, ogni parte ha una funzione diversa. Così insegna il Vaticano II[9], dandoci la misura di un coinvolgimento di tutti nel servizio del popolo di Dio.

         Il nostro obbiettivo è coinvolgere ancora tutti. Il sacerdozio e il ministero ordinato hanno la propria identità insostituibile, ma la scelta, già praticata fin dall’antichità, di prevedere una ministerialità diffusa è stata arricchita in tempi recenti dalla consapevolezza che c’è bisogno di tutti. La nostra Chiesa diocesana desidera, attraverso il Sinodo, trovare le modalità, perché ciascuno faccia la propria parte, tenendo conto delle peculiarità locali, nel rispetto degli 836 villaggi e paesi, delle 246 parrocchie.

         Nella visita pastorale mi sono reso conto, che nelle sette zone in cui si articola la Chiesa sul territorio, vi sono sensibilità diverse e bisogni differenti. Lo scopo del lavoro comune è che nessuno sia abbandonato. A tutti giunga notizia dell’esperienza che facciamo per assicurare un servizio attento ad ogni comunità.

         Innanzitutto recuperiamo la preghiera e la dimensione soprannaturale della Chiesa. La liturgia sarà efficace e convincente, se le persone che vi partecipano, vivono in amicizia con Dio e hanno la propria esperienza di preghiera. Sant’Ambrogio paragona la Chiesa a un coro[10]. Ognuno capirà che, come in un coro, se solo pochi cantano non si fa musica. Dobbiamo ritrovare il gusto di armonie nascoste, che possono tornare alla luce, con l’impegno di tutti.

         Più volte ho avuto occasioni per chiamare ancora tutti ad assumere il proprio ruolo. Mi piace farlo questa sera nella eccezionale vicenda sinodale, che, per un verso, si ricollega al ministero episcopale dei miei predecessori: Emanuele Mignone, Giuseppe Franciolini e Pompeo Ghezzi, gli ultimi vescovi far sinodo in questo territorio.

         Mi sento particolarmente sostenuto dal Cielo dal mio grande predecessore Telesforo Giovanni Cioli, che si impegnò fortemente, perché anche questa Chiesa potesse rinnovarsi con un Sinodo, recependo l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II: non gli riuscì di celebrare l’assise sinodale, perché, diciamo, gliene mancò il tempo, e forse il consenso necessario.

         Nei 14 mesi di preparazione a questo pomeriggio, ho riscontrato una attenzione del popolo di Dio, ben superiore alle aspettative. Molti hanno sete di Vangelo: non vogliamo far altro che rispondere a questa necessità. All’opera dunque, care sorelle, cari fratelli! Tocca a noi farci interpreti di ciò che lo Spirito dice[11] alla Chiesa aretina. È affascinante questo ruolo profetico, che ci è assegnato: dare voce a Dio che parla e farci solleciti di un ministero, che ci accomuna, in virtù del battesimo.

         All’inizio del Duecento, di fronte ai danni arrecati dalle invasioni barbariche, in Etruria, la Confraternita dei Pontieri si rese conto che occorreva favorire la comunicazione tra le persone, e si impegnarono a ricostruire i ponti crollati. Troveremo noi degli ingegnosi costruttori di comunicazione, perché il Vangelo e la testimonianza dei cristiani, quasi fossimo un cellulare, escano dal cloud, in cui ci siamo rifugiati? Torniamo a ricostruire l’unità di questa Chiesa. Le famiglie cristiane percepiranno il loro matrimonio come un servizio vicendevole tra i coniugi, aperto non solo ai figli, ma a quel tessuto di relazione che ciascuno ha. Soprattutto noi che siamo stati arricchiti del dono del sacerdozio di Cristo, impegniamoci a formare il popolo che ci è affidato alla vita interiore.     Agli insegnanti, ai responsabili della cosa pubblica, agli operatori di comunità domandiamo di favorire le relazioni vicendevoli e di operare per il bene comune.

 3. La missione

         Abbiamo ascoltato poc’anzi il Vangelo: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”[12]. È necessario renderci sempre più conto del compito, che il Risorto ci ha affidato. Un ruolo da vertigini, se usciamo dalla superficialità del tempo presente. Recuperiamo la consapevolezza, che Gesù si è manifestato come nostro fratello: siamo fratelli di Dio, oltre ad esserne figli. La missione della Chiesa non è una scelta tra le tante possibili, ma la nostra dimensione battesimale.

         A quanti facciamo parte di questa sinassi, ai sinodali, è chiesto di evitare la tentazione della superbia. Possiamo avviare ancora, in umiltà, quel lavoro interiore, che San Bonaventura descrive nei tre gradini della sequela[13], dell’imitazione[14] e della conformazione[15] al Cristo. La chenosi di Cristo a Betlemme, dove il Verbo si è fatto infante, capace solo di balbettare, pur di dialogare con noi, come insegna Sant’Agostino[16]. È quanto insegna, su questo tema, San Paolo: “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”[17].

         Se vogliamo dialogare con il mondo contemporaneo occorre dedicarci ad essere sempre più veri con noi stessi e con Dio. Del servizio della “Chiesa in uscita”, Gesù stesso ci ha indicato il metodo nel racconto dei discepoli di Emmaus[18]. I cinque verbi usati da San Luca descrivono il comportamento del Signore e la modalità, che la Chiesa deve assumere per essere icona del Cristo: “Con delicatezza: “Si avvicinò e camminava con loro”. Poi Ascoltare: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Al momento opportuno occorre spiegare: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò, che hanno detto i profeti!”. Infine condividere: “Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti… Egli entrò per rimanere con loro”. Da ultimo, i gesti della credibilità: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”[19].

         Nella progressiva consapevolezza dei secoli, la Chiesa si è resa conto che il Signore ci ha affidato i tria munera, i tre compiti, come via per rendere concreto l’amore verso il prossimo: insegnare, santificare e pascere. A questo Santo Sinodo compete di accogliere la sfida di andare controcorrente in Terra di Arezzo, con il Vangelo in mano. In umiltà, vogliamo imitare San Pietro, che nel suo viaggio apostolico a Roma nelle case dei Pudenti, sul Colle Viminale, spiegò il Vangelo, per un anno intero, ai poveri, agli stranieri come lui e a quella parte consapevole delle grandi famiglie romane, disposte a pensare. Forse dovremo riprovare a percorrere quella strada, in Arezzo.

         Santificare è opera della Grazia di Dio; tocca a noi invocarla nella preghiera, nei Sacramenti, ma soprattutto ogni domenica dell’anno liturgico. Il compito di pascere il Gregge del Signore richiede di andare a cercare la gente, di dialogare con la cultura, di essere inclusivi con quanti si avvicinino alla Chiesa. Siamo incaricati di riformare la struttura pastorale della Chiesa aretina, di metterci in linea con le altre Chiese italiane, accogliendo, con gioia, le Unità Pastorali, che, almeno in parte, ricalcano le antiche pievi di tutto il nostro territorio.

         Il Papa ci chiede di vivere lo Spirito sinodale, di riappropriarci della Chiesa, cioè di avere parte in ciò che il Signore ci dona: la famiglia, la comunità parrocchiale, associazioni e movimenti. La Chiesa, secondo Lumen Gentium, è un edificio dove ciascuno porta il proprio mattone. Diventa capace di accogliere un popolo intero, se ognuno fa la propria parte. Su questo progetto che inauguriamo stasera, avviando il cammino sinodale, non manchi la nostra preghiera, che è la fonte di quell’energia necessaria di cui abbiamo bisogno.

 



[1] At 4, 32

[2] Sal 117, 24

[3] 1 Gv 5, 6a

[4] Cfr. Dan 13, 51ss

[5] Cfr. Lc 10, 25-37

[6] Cfr. Gv 3, 1-15

[7] Papa Francesco, 17 ottobre 2015

[8] Cfr. 1Cor 12

[9] LG 1,7

[10] S. Ambrogio, En in Ps, 1,9-12

[11] Cfr. Apoc 2, 7ss

[12] Gv 20,21

[13] Cfr. San Bonaventura, Legenda Maior, I,6

[14] Cfr ivi, III, 2

[15] Cfr ivi, XIII, 10

[16] Cfr. Sant’Agostino, Sermo 190, 3.3

[17] Fil 2,6

[18] Cfr Lc 24,13ss

[19] ibidem