Omelia dell’Arcivescovo per l’inaugurazione del nuovo altare della Cattedrale

Altare_nuovo_Vangi

La santa Chiesa aretina, cortonese e biturgense è adunata quest’oggi per dedicare a Cristo Risorto il nuovo altare della chiesa Cattedrale, destinando al culto l’Ambone e la Sede posti presso l’Arca di San Donato, avviata ad un completo restauro.

  1. Il segno del tempio

Il Signore ha piantato una tenda in mezzo a noi, che è la sua santa umanità, perché avessimo un luogo di incontro per rendere il vero culto al Padre nello Spirito. Nella logica dell’incarnazione la presenza del tempio entro la città dell’uomo, esprime la nostra volontà di farci tutt’uno con gli abitanti della terra, perché mediante l’ascolto del Vangelo tutti possano diventare cittadini del Cielo. L’edificio, che è sacro perché destinato a contenere il corpo di Cristo che è la sua Chiesa , ha una forte capacità evocativa. E’ il monumento che riesce a dire agli abitanti del mondo, con il linguaggio plastico della materia modellata nelle forme dell’arte, la fede di chi ci ha preceduto. Interpella i cristiani di oggi chiedendo a tutti noi se abbiamo raccolto la testimonianza dei padri. C’è misericordia per tutti, ripete ogni giorno lo splendido concerto di campane dall’alto di questo mirabile colle.

Dio è in mezzo al suo popolo, torna a ripetere ogni mattina il profilo del Duomo e il segno della torre a tutti coloro che si avvicinano ad Arezzo. Segna l’immagine globale di questa città. E’ orientamento sicuro per chi si chiede dove si trova, perfino per chi ha perduto la strada; possa il Signore ottenerci che la nostra Chiesa viva sia un riferimento certo per chi è alla ricerca del senso delle cose.

Tempio vivo dove abita il Dio è questa Chiesa aretina, di cui l’edificio che ci contiene è solo un mirabile segno sul colle. E’ la fede dei piccoli e dei poveri, di quanti non presumono di poter fare a meno del Signore, che assicura il nostro comune accesso a Dio e fa di questo popolo, il ponte perché ciascuno possa accedere a Dio, come recita il salmo: “Di sera, al mattino e a mezzogiorno…egli ascolta la mia voce” [1]. Il tempio è lo spazio deputato alla relazione dell’uomo con Dio. Ciascuno di noi è chiamato a uscire dal banale e recuperare il senso delle proprie scelte.

Siamo chiamati a rammentare a tutti la misericordia del Signore, non con le parole soltanto e neppure con le sole pietre dei nostri monumenti. Il nostro messaggio diventerà soprannaturale e credibile solo attraverso la dimensione feriale della nostra vita. Dalla nostra carità si riconoscerà che siamo la famiglia di Dio: famuli Dei.

Come insegnano i Padri, “il tempio è duplice perché doppia è la natura di Cristo: divina e umana. Una non si vede, l’altra si vede. Adombra il mistero della Trinità la cui presenza è inaccessibile, ma tuttavia è conosciuta per la potenza e la provvidenza”[2].

“E’ possibile incontrare Dio”, dice questo tempio a tutti i cristiani, con il linguaggio dell’affetto: questo edificio riesce a evocare le immagini dell’infanzia, le persone care a cui qui abbiamo dato l’estremo saluto, la letizia delle famiglie nate dall’amore professato in questo luogo santo.

“E’ possibile incontrare Dio”, dice questo tempio alle centinaia di migliaia di pellegrini in cerca del senso della vita, che si aggirano ogni anno nelle nostre valli e in questa che è la patria terrena di un popolo dalla grande storia, perché tutti possano diventare cittadini del Cielo.

  1. Concittadini dei santi

L’intervallo tra la Risurrezione del Signore e il suo ritorno è il tempo della liturgia. Ricorda la pazienza di Dio, che ci salva attendendo che ogni nave approdi al porto della misericordia.

L’icona di Santa Maria al centro dell’Arca, tra Pietro e Paolo, Donato e Gregorio, è il progetto di Dio a cui riferirci.

Alla teologia dell’Arca risponde da secoli il grande rosone della facciata, dove il Marcillat, rappresenta la Pentecoste, ancora con Maria al centro e gli Apostoli e i discepoli attorno: tra l’una e l’altra raffigurazione ci siamo noi, la santa Chiesa aretina, cortonese, biturgense.

Questa è la nostra fede: se saremo fedeli all’ascolto della Parola, per il ministero sacramentale della Chiesa verremo trasformati nel corpo di Cristo che è la Chiesa, “nati dall’alto” secondo la felice espressione giovannea, facendo svanire l’egoismo che è in noi, perché prevalga la nostra identità di figli del bell’Amore.

Il tempio da tenere mondo e puro, da abbellire incessantemente con il nostro impegno è la nostra interiorità. La coscienza di ciascuno di noi è il luogo dove incontrare Dio, “in spirito e verità”[3].

  1. I segni rinnovati

            Tra i doni che il Papa ci ha portato, con la sua ormai imminente visita, vi è anche l’opportunità che abbiamo colto per tornare a studiare la teologia della nostra chiesa madre. Questa bellissima cattedrale gotica evoca nelle sue forme i grandi templi del Nord Europa, con cui nel nostro Medioevo la grande città ghibellina fu in continuo e proficuo contatto di cultura e d’arte. Gli esempi ai quali si ispira l’edificio che ci ospita da secoli trova i suoi riferimenti ideali nel venerato luogo di pellegrinaggi che fu Canterbury, non già il pur bellissimo gotico toscano dei nostri vicini. Come nella cattedrale di San Tommaso Becket, anche da noi la successione interna dei luoghi, parte dall’arca di San Donato, di fronte alla quale la cattedra, l’altare, l’ambone il coro dei presbiteri e le grandi navate dove il popolo di Dio ha parte ai sacri misteri.

            Lo studio approfondito e un grande restauro avviato ci permettono di ammirare nel suo pristino splendore l’arca e la catechesi che il lapicida medievale ci ha tramandato sulla teologia della Chiesa aretina.

            L’altare è tornato nel luogo antico, testimoniato da Marcillat, che con la scelta dei colori delle vetrate ci mostra il “luogo bianco e splendente” dove celebrare i Sacri Misteri

            L’altare, nella dottrina della Chiesa, è “figura del Cristo “ara, sacerdote e vittima del proprio sacrificio” (cfr Ebr 9,11-14), e memoria fisica della mensa del Cenacolo. L’altare che oggi dedichiamo con le sue dimensioni contenute evoca il segno dell’ara sacrificale; con le sue forme architettoniche ricorda la mensa dell’ultima cena. Con la sua centralità, circonfuso di luce, evoca la necessità di recuperare il senso soprannaturale delle cose, ci chiama a convertirci ogni giorno sempre più a Cristo Gesù: “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due popoli un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo”[4]

            Come segno che il Diluvio universale era finito, una colomba con un ramoscello d’ulivo nel becco annunziò l’inizio dei tempi nuovi. I Santi Padri lessero in quel segno, l’ombra della realtà futura: Gesù è l’angelo della pace, che con il sacrificio della croce, ci ha portato la salvezza, donando se stesso a tutti noi, nostro cibo e nostra bevanda nella divina Eucaristia, che è il centro della nostra fede, “fons et culmen” della vita della Chiesa. Nelle forme del nuovo altare l’angelo della pace, con il ramo d’ulivo in mano e la pietra del sepolcro finalmente ribaltata sulle ali, impatta vorticosamente sull’assemblea, alla maniera della “volata” cara a tutto il popolo della Chiana. La mensa a cui tutti accedere dai quattro poli, come dice la Scrittura, arreca il “panis angelorum, factus cibus viatorum” della nostra più bella tradizione teologica. Presso la mensa, con i sette candelabri dell’Apocalisse, la croce gloriosa di Cristo, albero vivo dai frutti incalcolabili a mente d’uomo.

            Il pane, frutto di molti chicchi di grano, il vino dei molti acini pressati, in virtù della Parola, diventa sacramento, come insegna Sant’Agostino: ”accedit verbum ad elementum et fit sacramentum”. La Parola è Gesù: La sua proclamazione, in virtù della croce, convoca il popolo di Dio e lo fa diventare Chiesa del Signore, se saremo capaci di meditare e interiorizzare, perché la vita corrisponda al Vangelo come il carisma di Camaldoli seguita a ripeterci, di generazione in generazione, da mille anni.

Il Duomo è la casa dell’ascolto. Il luogo che i padri predisposero per noi perché ciascuno vi ascolti la voce di Dio, che risuona nella Bibbia e nei cuori attraverso il ministero della Parola. La tradizione, soprattutto nella nostra tradizione celebrata dai Grandi del Rinascimento, che echeggiarono felicemente l’insegnamento dei Padri della Chiesa, vuole che il luogo dove si proclama la Parola, l’ambone, sia il sepolcro vuoto di Cristo. Ci insegna infatti Paolo che se egli non fosse resuscitato, vana sarebbe la nostra fede. E il nuovo ambone è esattamente il monumento al sepolcro vuoto, ma anche al vuoto esistenziale del nostro tempo, allo smarrimento, alla mancanza di orientamenti certi su cui incombe la Parola, esorcizzando il male e la mancanza di senso. Di fronte al “sepolcro vuoto”, l’Angelo di Pasqua, che nella posizione rituale ebraica dello Shalom annunzia la pace, corroborato dalla memoria della gloriosa passione del Cristo a cui è strettamente legato.

Dall’altra parte l’albero della vita che ricordando il paradiso perduto in Eden, ricollega con il paradiso riconquistato dal Cristo e accessibile attraverso li Sacri Misteri della Chiesa, la divina liturgia, riassunta nel cero pasquale.

Il nome di Cattedrale, che è attribuito da secoli a questo tempio evoca l’unità della Chiesa aretina cortonese biturgense. Attraverso il ministero episcopale, simboleggiato dalla cattedra presso l’Arca di San Donato, i miei santi e venerati predecessori ripeterono nei secoli la chiamata rivolta a tutti, perché tutti facciano parte dell’unico popolo di Dio, che è pellegrino in queste nostre valli della Toscana sudorientale.

Le ragioni della storia ci unirono all’epoca dei Padri della Chiesa, poi le ideologie della contrapposizione ci divisero. Il Beato Giovanni Paolo II, che mi consacrò Vescovo, ci ricondusse alla primigenia unità ed io cercherò di favorirla, con la preghiera e la predicazione, finché avrò vita. L’ecclesiologia di comunione, tanto cara ai nostri santi, ci ha riunito. Sulla cattedra di San Donato è iscritto il ministero del Vescovo, con le storie del grande Predecessore: la ceca Siranna, a indicare il ministero della Parola e il calice infranto, come segno del ministero sacramentale del Vescovo, a ricondurre all’unità con il Cristo il popolo fedele.

Nel giorno della dedicazione dell’altare, ci è chiesto di rivisitare il tempio interiore, per vedere se fummo capaci di misericordia, se le nostre azioni manifestarono la nostra natura di “figli nel Figlio”, se la nostra poca santità almeno fa venire il desiderio di assomigliare al Santo, come a La Verna Francesco ottenne in modo mirabile.

Il segno della cattedrale che questo tempio richiama, rappresenta plasticamente il mistero della salvezza: dall’Annunciazione alla Coronazione nel Regno, dove sono testimoni patriarchi e profeti testimoni del Cristo assieme ai Santi e ai morti sepolti sotto il paradisum anche del nostro antico pavimento. In questo luogo si impara a benedire, a chiedere perdono, a confessare la propria fede, a fare l’Eucaristia e ricevere i santi doni dello Spirito.

E’ la casa dell’Amen. Siamo qui per rinnovare il patto con il Signore: queste famiglie che sono oggi convenute in Duomo sono disposte a rinnovare il patto con il Signore, sull’esempio dei loro antenati?

E’ la casa della Chiesa. La presenza anche fisica della Chiesa dentro la città dell’uomo ha una capacità evocativa profetica. E’ come offrire a tutti il servizio dei cristiani, per il bene comune di tutti.

Alla madre di Dio, invocata con perfetta sintonia da ogni comunità della nostra diocesi, come in una mirabile sinfonia, si leva questa sera il nostro pensiero e la nostra richiesta di aiuto. Possa ciascuno di noi ritrovare il segno della propria dedicazione al Signore, come questo tempio che a Lui è dedicato, il Signore della gloria.

+ Riccardo, Arcivescovo



[1] Sal 55,18

[2] Simone di Tessalonica, PG 155, col. 703

[3] Gv 4,33