Ogni cammino cristiano, come ogni storia di vita, è un’avventura nella notte delle poche certezze, dei molti dubbi, alla ricerca del senso delle cose, “tra le persecuzioni del mondo, e le consolazioni di Dio”[1], come ci ha insegnato il santo Padre Agostino. Nella storia di ogni uomo vi sono certamente molte cose belle, ma non mancano le prove. Il valore aggiunto che i cristiani portano nella condizione comune dell’umanità è di camminare insieme e di avere come stella per orientarsi nella notte la parola di Dio e la grazia della presenza del Signore in mezzo a noi.
Essere in cammino esprime la decisione di mettersi in moto come ai tempi dell’Esodo antico, dall’Egitto della schiavitù, che è una costante di ogni generazione per andare alla ricerca della libertà e della verità. Israele antico divenne popolo di Dio proprio nella capacità di essere alternativo alla tentazione di accontentarsi, di assuefarsi al fatalismo delle cose, di trovare la propria identità nella strada da percorrere, nella fatica che comporta ogni esodo personale. Il cammino dei 40 anni del deserto, il cammino soprattutto della nostra vita di cristiani, ancor prima che delle manifestazioni esteriori, per cui tra breve scenderemo dentro la città, è un cammino interiore in risposta a Gesù che ci ha detto “prendete e mangiate. Fate questo in memoria di me”[2]. La memoria va al cenacolo, presso le mura di Gerusalemme, di là dal torrente Cedron, in cima alla grande salita sul versante opposto all’Orto degli Ulivi. Là comincia la nostra storia collettiva; ma il senso di quello che siamo venuti a fare questa notte nella Chiesa Madre aretina è quello di rimetterci insieme in cammino, il cammino interiore innanzi tutto è poi quello della partecipazione alla vita della città, entro la quale vogliamo essere presenti soprattutto nell’esercizio della carità e nel servizio alle persone.
“Prendete e mangiate”, un cammino che diventa significativo proprio perché parte da un ascolto, dalla logica dello Shemà, dal prendere Dio sul serio, un Dio che mi parla, che mi dice, che mi interpella. Un cammino di persone tutte responsabili – nessuno di noi infatti è qui a fare gesti esteriori soltanto, ma c’è una motivazione di dentro, c’è una ragione –. Persone che passo dopo passo, vogliono recuperare la dimensione del progresso e della vita secondo lo Spirito. Vorrei che questo Corpus Domini fosse segnato dalla volontà di riaccendere insieme la luce della fede, quella degli avi che costruirono questa chiesa Cattedrale e portarla in ogni luogo della nostra vastissima diocesi per ridire a tutti che abbiamo ancora il fascino di rimetterci in marcia.
Bisogna anzitutto riscoprire che si deve una risposta a Dio che ci parla, la nostra risposta di cristiani in cerca del senso della vita. Anche noi come tutti gli altri uomini camminiamo nella notte oscura del dubbio, e, Dio ce ne liberi, anche del peccato. Ma sappiamo che quella Parola che è capace di fare del pane e del vino il corpo e il sangue di Cristo fa di noi il corpo di Cristo che è la Chiesa.
Stanotte ancora siamo chiamati a conversione. Ciascuno ritrovi la sua strada, la sua identità più vera; si rimetta in cammino giorno dopo giorno, ridia spazio alla preghiera. Questa folla convenuta in Cattedrale, anche solo con la sua presenza ridice a tutti la voglia di dare spazio alla preghiera e la centralità dell’eucaristia che è la preghiera per eccellenza. Non c’è preghiera più alta e più bella della Messa: è Gesù che ha voluto così. Vorrei lanciare stasera, ad ogni cristiano che ci ascolta un piccolo affettuoso suggerimento: vi chiedo – fratelli miei e sorelle amate – di provare a tornare alla confidenza con l’eucaristia, che si esprime secondo la nostra tradizione nella frequenza costante e nella pratica della Messa quotidiana. Rimettiamo l’Eucarestia al centro della nostra vita. Generazioni di cristiani, prima di noi, pur gravati da un mare di lavoro e di fatica da fare, trovarono il tempo per Dio e ottennero di diventare giusti. Ritorniamo a mangiare del corpo di Cristo, che è quella comunione che ti trasforma, perché mentre mangi nel sacramento il corpo di Lui, diventi tu stesso parte del corpo di Cristo[3].
Il santo Padre Agostino ripete a tutti noi che nella Messa ci cibiamo di ciò che vogliamo diventare. Questo cammino di unione con Gesù attraverso l’esperienza dell’eucaristia, non è il rifugio nell’intimismo privato, ma significa ridare a Dio il primo posto. Per quanto hai da fare, per quanto la tua vita sia piena di mille cose, non ti è impossibile rimettere l’impegno alla preghiera quotidiana al centro della tua esperienza. Di lì, nascono le famiglie cristiane. Vorrei appellarmi a quel meraviglioso percorso pedagogico che fece l’Azione Cattolica in anni ormai lontani, formando le moglie e le madri di gran parte della nostra Italia, attraverso l’esercizio della virtù, nella ricerca della qualità interiore.
Anche noi stasera facciamo un percorso, ma non può essere fatto soltanto nella materialità dei gesti. Ogni passo che fai, chiedi a te stesso – al di là dei canti e delle parole – quale sia il senso interiore che dai alle opere e ai giorni in cui si esplicita la tua vita. Non venite a chiedere a noi sacerdoti soltanto l’esercizio rituale del culto. Chiedeteci invece l’anima del sacerdozio, del sacramento dell’ordine, che è il discernimento degli spiriti. In questo tempo in cui perfino la paternità è messa in discussione e talvolta la maternità della Chiesa non appare in tutto il suo splendore, ciascuno impari ad avere ancora un “padre spirituale”, a verificarsi con assiduità e perseveranza.
Ringrazio Dio che stasera accanto al presbiterio diocesano c’è una presenza forte di frati delle nostre comunità di religiosi delle nostre comunità di vita consacrata. Tutti fatti partecipi del sacerdozio di Cristo siamo a disposizione del popolo di Dio per indicare la via del Cielo! Lasciate che alla parte giovane della nostra Chiesa che vedo con gioia in Cattedrale stasera ripeta ciò che San Giovani Bosco diceva ai suoi ragazzi: “Voglio che siate felici”[4]. La via della felicità, passa attraverso l’unione con il Signore. Questa è la vera processione, molto più faticosa che non andare dentro la città dell’uomo.
Correva l’anno di grazia 1264. Dal castello di Orvieto, Papa Urbano IV chiede a tutta la Chiesa Cattolica, ad ogni Chiesa, di ripetere il gesto di portare il Santissimo Sacramento per le vie e per le piazze. La Bulla Transiturus Dominus dice però che non sia un gesto esteriore, dove semplicemente si chiede al popolo che si inchini perché i cristiani passano col Sacramento attraverso le strade della città dell’uomo. Dice invece, quell’antico Papa, che sia la nostra carità, la carità delle nostre comunità a rendere credibile la nostra fede eucaristica. Il nostro amore per il prossimo passa attraverso l’esercizio concreto e quotidiano della nostra carità attraverso l’attenzione che la Chiesa ha per la città dell’uomo.
“Santissimo” è parola che ripetiamo continuamente nel linguaggio ecclesiale. Persino la parola rischia di diventare vuota di significato se nella nostra vita non corrisponde l’impegno a diventare diversi dal resto del mondo, se non abbiamo una logica alternativa, un cammino ascetico dentro di noi. Dio ci liberi da un culto meramente esteriore, di sola apparenza che insulterebbe la presenza stessa di Dio in mezzo a noi. Isaia profeta ci insegna che il Signore chiede da noi altro che “olocausti di montoni… grasso di giovenchi… offerte inutili… noviluni, sabati, assemblee sacre”. Ci chiede invece di “imparare a fare il bene, ricercare la giustizia, soccorrere l’oppresso”[5].
Alziamo pure i segni della nostra appartenenza, quali il crocifisso innanzitutto e gli abiti liturgici. Ma il segno più vero e più forte della nostra appartenenza a Gesù è la conversione continua del cuore e una vita santa. Diciamolo ancora con coraggio! Nasceranno così famiglie sante. Cioè diverse dal modo comune di ragionare, dal lassismo che ci circonda, dal relativismo etico che il Papa ci ricorda continuamente. Gli occhi fissi sull’eucarestia, per ricordarci che Dio ha avviato l’alternativa. Si può vivere d’amore, amici! È possibile ancora! Tocca a noi però andarlo a raccontare ai tanti. Tocca riprendere il gesto del non profitto e della non ricerca dell’interesse personale.
Stasera al termine di questa Messa, insieme, porteremo la Santissima Eucarestia in un luogo camaldolese insigne. Andremo a San Benedetto alla Pia Casa, che è la più antica istituzione ancora viva in questa città di attenzione ai vecchi, ai malati e ai disabili. Il gesto che facciamo però ci condannerà se non prenderemo l’abitudine di andarci, non solo la notte del Corpus Domini, ma giorno dopo giorno nell’esercizio quotidiano della carità, su tutto il territorio della nostra diocesi. Questa Chiesa antica è piena di opere di carità, bisogna ritrovare il verso di mostrare ai nostri ragazzi che si è cristiani, si ascolta la Parola di Dio, se si risponde a Dio che chiama a vocazione dicendo “sia fatta la tua volontà” e se le nostre mani operose sapranno dare ai gesti collettivi di un popolo in cammino, il senso della carità.
Vorrei che questi bambini che stasera sono venuti in rappresentanza di qualche decina di migliaia di loro coetanei di tutta la diocesi, cioè i bambini della prima comunione, potessero vedere il popolo di Dio in cammino ordinato per le vie di Arezzo. Ancor più mi piacerebbe se riuscissero a vederlo nell’unità d’intenti tra tutti noi: in un presbiterio unito, motivato, caritatevole e in un popolo animato in 246 parrocchie pronto a rispondere al Signore. Ci sono stasera qui con noi i segni di una pietà antica, le Confraternite di Misericordia della nostra diocesi, ci sono le Compagnie con cui gli antichi vollero esprimere anche pubblicamente la scelta della carità. Rimettiamoci in cammino di nuovo per riprendere verso, per ritrovare la strada, dietro al crocifisso, facendo strada alla Santissima Eucarestia, il più prezioso dei nostri tesori, il segno della nostra identità più vera.