Messa Crismale, omelia dell’Arcivescovo

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         Amati fratelli miei Presbiteri, cari Ministri di questa Chiesa, Religiosi e Religiose, e popolo di Dio qui adunato per la Messa del Crisma:

il Signore ci dia pace in questo giorno Santo!

       

1. Secondo l’ordine di Melchisedec

        Fare memoria del dono dello Spirito, che ci è stato dato, è il senso della celebrazione che ci raccoglie in Cattedrale, attorno all’altare, segno della presenza di Gesù. Questa esperienza comunitaria è nella linea sapienziale della tradizione d’Israele, nell’Antico e nel Nuovo Testamento: siamo il popolo che sa fare memoria per non dimenticare l’alleanza col Signore. Così rispettiamo il precetto di Gesù: “fate questo in memoria di me”[1]. Questo memoriale attivo e comunitario è tanto più necessario quando le vie di Dio appaiono misteriose e la missione complessa. Come il padre Abramo, ci avventuriamo nel nuovo, da conoscere, da evangelizzare, da santificare. È il concetto di Chiesa “in uscita”[2], a cui Papa Francesco ci chiama.

        Come insegna l’Apostolo: “poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno una medesima funzione, così anche noi”[3], nella Chiesa in Terra d’Arezzo, e in questa assemblea liturgica.

        Fratelli miei presbiteri, fummo ordinati sacerdoti di Cristo, come Lui secondo l’ordine di Melchisedec[4], evocando l’antico re di Salem, il cui nome connota “Giustizia” e “Pace”. Ecco il nostro programma di vita: avere Gesù come modello. Lo è di tutti i cristiani, lo è in modo particolare di quanti siamo partecipi del sacerdozio ministeriale di Lui, perché chiamati ad “agere in Persona Christi”. La nota dominante nella nostra vita deve essere la sequela, l’imitazione e la conformazione[5] a Gesù nella vita interiore, ma anche nel servizio che rendiamo alla Chiesa. Il Signore, per salvarci, ha scelto la via della kenosis, dall’incarnazione fino al Calvario. La via dell’umiltà ci induce al servizio agli uomini e alle donne che avvicineremo, per aiutarli con la Grazia di Dio a recuperare umanità e libertà.    Questa mattina torniamo a promettere scelte alte. Saremo anche noi sacerdoti della nuova alleanza? Melchisedec e Aronne sono due vie che ci si aprono dinanzi, un bivio esistenziale. Il re di Salem, biblica anticipazione di Cristo, esprime la qualità d’essere sacerdoti della nuova alleanza, capaci di promuovere la giustizia e la pace. Il compito educativo è primario nel nostro servizio, connesso con il Ministero della Parola e rafforzato dall’Eucarestia.

        In questo giorno santo viene naturale una sorta di verifica, nella mia, e nella coscienza di ciascuno di noi. Ci chiediamo se siamo riusciti, nell’anno che è passato, ad aiutare quanti avvicinammo ad esser giusti nel triplice rapporto con Dio, con se stessi e con il prossimo. Con il nostro Ministero, si forgia l’umanità nuova, la civiltà dell’amore[6]. Nel sacerdozio è essenziale il ruolo di costruttori della pace: nel cuore delle persone, nelle relazioni, nel mondo. In questo tempo di pluralismo, giova non perdere la nostra identità. Gli uomini del Vangelo non si possono accontentare della dimensione sociologica e politica della pace, giacché assumono come modello il grande Paciere, il Crocifisso.

        Questo dà il senso della nostra personale donazione per il bene comune, pro mundi vita[7]. È in questa scelta che qualifica la vita di tutti noi, il nostro principium identitatis. Su questa risolutiva generosità si fondano il celibato, il distacco dai beni materiali e l’obbedienza alla Chiesa.

        È da chiederci quanto il popolo di Dio si renda conto che il celibato è, nella carne di ciascuno di noi, un modo concreto di seguire Cristo in croce. Accumulare danaro e beni di fortuna, per un presbitero, è come prendere le distanze dal Figlio di Dio, nato povero tra i poveri. Dio ci liberi dalla apparente sobrietà di vita, mentre si accumulano tesori che vengono alla luce post mortem. L’obbedienza talvolta costa fino alle lacrime[8], sul modello di quelle di Cristo al Getsemani; ma è efficace presa di distanza dalla logica del mondo. Ci è affidata la Chiesa, che è un corpo unico, come la “tunica inconsutile”[9]: come neppure i soldati alla Crocifissione osarono fare, non va divisa, non solo allontanandosi dal vero, ma neppure infrangendone l’unità, di fatto frazionandonene il corpo vivo, con scelte autoreferenziali.  

        Come la primavera che avanza, questa celebrazione ripropone, ancora una volta il bivio, dove si deve scegliere tra l’ideale del sacerdozio del Nuovo Testamento e la tentazione di far rivivere il ruolo sacrale dei Leviti e di Aronne, espressione del sacerdozio dell’Antico Testamento nel suo moltiplicare riti e incombenze di cui Dio, non si cura, come ripetono i Profeti. La lettera agli Ebrei ci insegna che Gesù ha abrogato quella forma di sacerdozio “a causa della sua debolezza e inutilità” [10]; a noi invece è affidata “l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio”[11]. I sacerdoti del Nuovo Testamento siamo noi, quando siamo portatori di speranza al mondo. La libertà dei figli di Dio è il culto a Lui gradito. L’intero ordine sacramentale, dall’esorcismo prebattesimale alla sacramentalità del matrimonio cristiano, esprimono la novità del Vangelo.

 

2. La vita secondo lo Spirito

        Cristiani presenti in questa santa assemblea, la vita secondo lo Spirito è un cammino, proposto a ciascuno di noi con la Grazia dello Spirito Santo. Dall’infanzia alla piena maturità, ci è chiesto di progredire nella vita interiore. Ad ognuno di noi è proposto un rapporto preferenziale con la Parola di Dio, meditando la quale sorge nel cuore la preghiera, si riforma la vita, si dà senso sostanziale alla scelta cristiana con l’aiuto dei sacramenti. Mi piace riproporre Maria come modello di questo cammino e aiuto per ciascuno di noi.

        Una costante tradizione, viva anche nei nostri pittori, descrive la SS. Annunziata con la Bibbia in mano. La tradizione monastica ha compreso che in Maria profezie e compimento si sovrappongono e coincidono. Maria “legge” la Parola, nel senso pieno del termine: “ella ascolta, medita, memorizza, scruta, comprende, prega, acconsente, contempla e così si prepara ad accogliere il messaggio, che le viene dalla Parola che legge”[12], e si realizza all’annunzio dell’Arcangelo, con la Parola che si incarna. Nostra Signora è per tutta la vita innanzitutto intenta a leggere e comprendere Gesù, accanto a lei cresciuto e vissuto fino al Calvario e alla Resurrezione. Impariamo anche noi dalla nota del Vangelo: “Maria serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”[13] e ci chiede di fare altrettanto. Occorre uscire dalla banalità del tempo presente, per avere spessore interiore attraverso la meditazione – lo spazio del cuore – come dice la Scrittura. Il Vangelo ci fa crescere di dentro.

        Maria nella tradizione teologica è anche il “libro aperto” per meglio comprendere Gesù: così fecero gli Apostoli e gli Evangelisti. Il suo silenzio è interiorizzazione del disegno di Dio, la sua vita la fa icona, modello della perfezione che vogliamo imitare. Il Salmo ci insegna metodo e fine: “Sta’ in silenzio davanti al Sigore e spera in lui”[14]. Tutti noi, cioè questa Chiesa così ricca di pietà mariana, imitando la Madonna nel continuo ricorso alla Parola di Dio, si arricchirà dello Spirito Santo, ciascuno nella propria interiorità, così da risplendere di santità di fronte al mondo, e tornerà capace di annunziare Gesù, di generare nuovi cristiani: exempla trahunt.

        Fin dall’epoca degli Apostoli[15], la liturgia delle ore è lo strumento percepito come nutrimento dell’anima, nello stress quotidiano. Punteggiare la giornata con la preghiera è il modo cristiano di vivere. Tocca a noi, sacerdoti e ministri, essere fedeli al breviario, che ci prepara alla carità e ci dispone ad un rapporto continuo con il Signore. Per noi persone di speciale consacrazione, la liturgia delle ore non è soltanto un dovere a pregare per la Chiesa, ma favorisce l’intimità con Dio, libera dal soggettivismo, nel quale non si sa mai con certezza se si preghi Dio o la proiezione di noi stessi. Ci riconduce alla dimensione ecclesiale di quel popolo beato, “che ti sa acclamare/ e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto:/ esulta tutto il giorno nel tuo nome,/ nella tua giustizia trova la sua gloria”[16].

        La meditazione della Parola è la porta attraverso la quale recuperare nella semplicità la gioia di essere cristiani, di avere pace ogni giorno, di sentirci sorretti nelle prove della vita, nel dolore e nelle difficoltà. Questo è il segreto tesoro di cui siamo custodi, chiamati a far sì che quanti incontriamo possano accingervi: “O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte”[17]. Il vino è la capacità di essere felici e brindare e il latte il sostentamento per la vita.

        Su queste basi dobbiamo formare il popolo che ci è affidato, col Ministero della Parola, la Catechesi e la vita secondo lo Spirito. Nel nostro tempo non bastano devozioni e tradizioni: perseverando con il linguaggio del passato stiamo perdendo la capacità di evangelizzare le generazioni nuove. Occorre abbeverarci alle fonti della Grazia. Questo è il frutto della preghiera. Altra cosa è pregare, altro è “dire preghiere”. A questo Ministero di formare “uomini nuovi”, siamo chiamati tutti, nel sacerdozio, nel matrimonio e nel nubilato, facendo tesoro della presenza di Gesù in mezzo a noi con l’Eucarestia. Soprattutto a quanti nel sacerdozio e nei ministeri svolgono servizi per la comunità, raccomando la Messa quotidiana, dove il sacrificio di trovare il tempo è ben compensato dall’incontro sacramentale con Gesù. Dalla Messa provengono il silenzio dell’adorazione e la visita al Santissimo Sacramento, privilegiati momenti a cui educare quanti ci sono affidati.

 

3. La ministerialità diffusa

        Sorelle e fratelli miei amati, al servizio che ci è affidato corrisponda la nostra vita personale. Il mio vecchio parroco, quando litigavamo da chierichetti per chi facesse le ampolline e chi il piattino, amabilmente diceva che il servizio più importante all’altare è pregare. Ci liberi Dio dai “fattoroni”, che nel fare intendono essere religiosi e monopolizzano la presenza dei laici in parrocchia, ma anche da chi percepisce essere cristiani come uno stare a guardare, e al più commentare, spesso acidamente. Quando il Papa dice di liberare la Chiesa dal clericalismo, intende proprio questo. A noi, cui è affidato il compito dell’educazione, è chiesto di aiutare il prossimo ad essere responsabile e partecipe della vita della Chiesa.

        Il Sinodo, che avvieremo tra una settimana, vuole essere la chiamata di tutti alla corresponsabilità e all’impegno. Non solo perché lo hanno detto i Papi e i Concili, ma perché Gesù ci chiede di essere suoi amici, pronti ad aiutarlo, ciascuno secondo la propria vocazione. È una grazia avere una Chiesa pluralista e multietnica, attenta alle necessità degli altri, sollecita nella carità: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”[18]. È l’amore vicendevole, la carità, che in Arezzo come in Antiochia antica[19], ci fa riconoscere come cristiani.

        Nella grande Eucarestia di oggi, più esplicitamente che in quelle di tutto l’anno, preti e laici offriamo noi stessi con Cristo a Dio Padre. Questo è il rinnovo del patto, che ci fa Chiesa, e di qui parte la motivazione interiore, che fa poi tornare ciascuno, più lieto, al servizio che gli è affidato. Gli Oli Santi, sui quali, in questa celebrazione, invochiamo la Benedizione del Signore, raggiungeranno, questa sera, le 246 comunità della Diocesi, nella Messa in Coena Domini. Il profumo della Grazia dello Spirito Santo, che la tradizione vuole espresso nel Sacro Crisma, renda più leggero il peso delle nostre fatiche. L’olio del Buon Samaritano, che porteremo per l’Unzione degli infermi, ci faccia essere attenti ai bisogni e alle sofferenze dei nostri fratelli. L’olio dei catecumeni, come gli antichi lottatori nei circhi romani per sfuggire alla presa dell’avversario, ci faccia riprendere la lotta interiore per essere giusti e probi.

        Ogni parroco si chinerà a lavare i piedi degli Apostoli e il Pane eucaristico tornerà a dare forza ad ogni comunità, avviando il Sacro Triduo. Che il Segno non sia solo un rito “da giovedì santo”, ma sia una promessa di servizio di noi sacerdoti, invitando tutti a imitarci.

        La Chiesa in Terra d’Arezzo, idealmente adunata in questa assemblea, si prepari alla carità dando il proprio a chi è nel bisogno. Con la Grazie di Dio, a tutti giunga l’eco della Benedizione, che oggi insieme invochiamo sulla Comunità ecclesiale di cui siamo figli e sposi, perché miri al bene comune, con condivisione di tutti.



[1] Lc 22,19

[2] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, cap. I, 24 novembre 2013

[3] Rm 12, 4

[4] Eb 7, 15-19

[5] Cfr. Mt 4, 19; Mt 16, 24; Fil 3, 10

[6] Cfr. Beato Paolo VI, Omelia di Pentecoste 1970

[7] Gv 6, 51

[8] Lc 22,43-44

[9] Gv 19, 23. Sull’identificazione tra tunica inconsutile e Chiesa basti rinviare a S. Gregorio Magno, Lettera a Ciriaco Vescovo di Costantinopoli (ottobre 596), Libro VII, n°5 , in Opere di Gregorio Magno, Città Nuova 1996, Lettere 2, pag. 414.

[10] Eb 7, 18

[11] ibidem

[12] Jean Leclercq, La contemplazione di Cristo nel Monachesimo medievale, Cinisello Balsamo, 1994

[13] Lc 2, 19

[14] Sal 37, 7

[15] Cfr. At 3, 1

[16] Sal 88, 16-17

[17] Is 55, 1

[18] Gv 13, 34-35

[19] Cfr. At 11, 25