Lettera dell’Arcivescovo alle famiglie della Chiesa aretina
- La pandemia ha fatto evidenziare la fragilità dei singoli
Appena di ritorno da Roma, dove aveva dato prova di sé sotto la guida del Beato Angelico, a Benozzo Gozzoli fu chiesto di affrescare la Cappella Maggiore della Chiesa di San Francesco a Montefalco, con le storie del Poverello d’Assisi. Benozzo aveva una straordinaria capacità di far attraverso le sue pitture.
A dar buona prova di sé alla prima opera in Umbria, Benozzo scelse la tematica illustrata da Giotto nella Basilica Superiore e, tra le opere compiute da San Francesco, anche l’artista racconta la cacciata dei diavoli da Arezzo.
La tematica è palese: qual è la causa del male che affligge ogni civitas? Il giovane pittore si avvale delle sue competenze. Intanto, i diavoli possono essere cacciati, non con riti esoterici ma con la Parola di Dio e la qualità della Chiesa, che esprimono la Santità di chi prova ad aiutare la gente per amore di Gesù.
Da una parte una città arroccata e chiusa in se stessa, dalle forme rigide e geometriche e dai colori freddi; nell’opposto comparto, una natura umanizzata, bella e fiorita che accoglie frate Francesco e frate Silvestro[1]e dà modo di rimettere insieme gli aretini. La communitas, che trae origine dall’aiuto di Dio, è la grande medicina per sconfiggere i mali del tempo, che seguitano ad essere la superbia, l’invidia, la violenza come
all’inizio del Libro della Genesi. Quello appena passato è stato un anno difficile. Le prime avvisaglie di quanto sarebbe successo le abbiamo viste subito dopo la Festa della Madonna del Conforto dello scorso anno.
Forse, in qualche modo, è stato sottovalutato il rischio, il dolore che ne conseguiva, le difficoltà di rispondere a una sfida inedita.
La cosiddetta “spagnola”, tra il 1918 e il 1920, era stata l’ultima epidemia a seminare lutti e paure in un Occidente disinteressato di quello che succedesse altrove.
Siamo passati attraverso anche la “supponenza” di chi era convinto che la cultura del nostro tempo, pur nella medicina che in questo secolo ha fatto passi da gigante, avrebbe saputo certamente trovare la soluzione perfino al nuovo “esserino”, chiamato con quel nome strano, “Covid-19”.
L’approccio al nuovo avveniva con ragionamenti che della filosofia avevano soltanto l’apparenza, ma non la riflessione, la ricerca del vero, la capacità di relativizzare l’oggetto del discutere, cioè la qualità.
Poi, sono subentrate subito l’economia e la politica, come due sorelle siamesi, inseparabili, soprattutto quando una sorta di dogmatismo laico, da troppo tempo, non metteva in discussione il nostro stile di vita, il colonialismo statunitense, l’assoluto identificato con la soddisfazione dei sensi e il denaro messo a disposizione di chi, per ricchezza o per lavoro, ha goduto di un mutamento sociologico. Per ritrovare situazioni analoghe, bisogna andare molto indietro, ma questa operazione retroattiva non serve a granché, se non a far pensare. Per esempio, l’Impero Romano cedette di fronte al nuovo che avanzava, perché erano andate perdute le virtù repubblicane.
Cambiare lo stile di vita, fino all’anno scorso, era lo spettro con cui la maggior parte della gente – forse anche noi cristiani – cercava di non misurarsi o quantomeno di rimuoverlo dalla considerazione degli auditel. Noi, che siamo Chiesa, laici e chierici insieme, non abbiamo saputo e forse neppure voluto dare spazio a questa riflessione. La parabola “del ricco Epulone e del povero Lazzaro”[2]inquietava solo i migliori, i missionari e i Papi. A qualcuno davano noia, con dire evangelico, anche i poveri lazzeri, arrivati nella ricca Europa a crear fastidi e a mettere in discussione i benpensanti e l’establishment intero.
Il confronto tra giustizia e carità è stato confinato ad essere un argomento accademico, rifuggito dalla politica e perfino poco praticato dai predicatori.
La pagina successiva è stata la grandine di morti che ci ha fatto riflettere, anche piangere. Qualcuno ha ritrovato il verso di pregare per recuperare almeno l’essenziale.
Parte della nostra popolazione si è attardata, disquisendo, con rinnovato bizantinismo, se sia più importante salvare i profitti o la vita altrui, almeno fin quando i corpi esanimi, le salme dei nonni sono andate perdute, generando sofferenze, rimpianti e, nei più attenti, qualche senso di colpa.
- Il dialogo tra i membri della famiglia
In questo sovvertimento globalizzato dobbiamo renderci conto che la famiglia ha tenuto. Forse, qualche volta ci eravamo dimenticati che i matrimoni cristiani hanno una bellissima funzione di buon esempio, non perché siano necessariamente migliori degli altri, ma perché, perlomeno, rispondono a una proposta alta che aiuta tutti, sia quelli a cui riesce metterla in pratica, che pure quelli per i quali non abbiamo cercato i modi giusti per cogliere l’identità propria del Matrimonio secondo il Vangelo.
Pare che quello dei cristiani sia sempre e solo un sistema di divieti, di condizionamenti, di sacrifici e di repressioni, ma non è per niente così. Una storia d’amore ha un suo linguaggio proprio che accomuna il linguaggio dei corpi, pur nel rispetto delle persone. La nostra popolazione, anche tempestata da una continua ripetizione di modelli antitetici, si sta facendo attenta alla bellezza di storie d’amore che durano per l’eternità, come quelle degli sposi innamorati. Non è utopia, ma parte della fede cattolica.
Anche in materia matrimoniale, è doveroso distinguere tra fede e morale. In questo tempo siamo tentati di giudicare i comportamenti e meno a capire le motivazioni. La fede viene prima della morale.
Certamente la coerenza vorrebbe che alle parole corrispondessero i fatti, ai segni i contenuti, ma la logica non è la misura della realtà. La Chiesa, se vuole essere fedele al suo Signore, deve vivere di misericordia, far conoscere il progetto di Dio e aiutare tutti ad essere felici.
I comportamenti di molta gente vengono determinati oggi da una sorta di cultura dominante che afferma se stessa e, poco per volta, trasforma la medesima autoconsapevolezza di essere persone.
Un grande studioso della Filosofia del Diritto, nel secolo scorso, ragionava attorno a tre monosillabi latini, mos, ius, lex: consuetudine, diritto e legge. A seconda di come combini le precedenze tra questi tre concetti, cambia il mondo intero. È dalla coerenza con i comportamenti diffusi che deriva la giustezza del tuo operare fino a stigmatizzarlo come doveroso modo di vita? Oppure: il principio, astratto da non si sa chi, deve diventare norma di vita accettata dai più? E infine: in una storia d’amore può esserci una norma che determina i comportamenti di tutti, fino a farli diventare misura condivisa?
Una delle differenze sostanziali tra paganesimo e fede cristiana sta appunto in una storia d’amore di Dio che chiama un uomo e una donna a condividere la strada della vita. “Si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”[3] . Genereranno figli e figlie fino a progettare il mondo futuro sulla scorta di un rapporto personale con il Signore, sempre recuperabile, come quello descritto in Genesi, quando cioè ogni giorno Dio si intrattiene amabilmente con l’uomo e la donna, ascoltandoli e aiutandoli a fare storia.
La novità del cristianesimo, di fronte alla visione pagana del mondo, si ripropone ad ogni generazione. Proprio perché l’uomo e la donna sono persone libere, devono scegliere quale sia la strada che vogliono percorrere, puntando sempre sulla pazienza di Dio, che è ben raffigurata dalla fede di Israele: il padre che accoglie comunque i figli, li ama, è pronto ad aiutarli. Da quest’ultima visione del mondo si manifesta la sacramentalità del Matrimonio. L’idea, invece, che l’uomo e la donna siano due persone sole che inventano una storia, ogni volta a rischio, appartiene alla letteratura d’oltreoceano, dove il fascino della conquista spesso prevale sulla bellezza di una esperienza d’amore, per la quale vale la pena di giocarsi tutto.
Il coraggio dei giovani che si sposano e magari anche fanno figli è alternativo al pensiero comune. È un lento, moderato ripensamento: quanta minore sarà la retorica nel rappresentarlo, tanto più può diventare avvincente perché reale. È frutto di un’antropologia non inventata, né pretenziosa: è l’eco della storia che conforta ancora oggi, soprattutto se illuminata dalla fede.
Questo tempo di pandemia ha fatto sperimentare alla gente un dolore amarissimo per la perdita quasi improvvisa dei vecchi, senza la certa speranza cristiana di ritrovarli nel giorno del Signore. Figli e nipoti sono stati provati nei loro affetti più semplici dalla dipartita dei nonni. Anche in Arezzo, fino a poco tempo fa, si risolveva l’alternarsi delle generazioni con il meccanicismo e, in questa terra, “intra Tevero et Arno”[4], ricca di fondamentali memorie, si era giunti al disinteresse per gli altri, tutti concentrati al proprio tornaconto.
Solo qualche anno fa, uno dei nostri valenti parroci aveva avviato una sorta di confraternita per assistere alle esequie di chi, magari troppo vecchio o poco “interessante”, non riusciva ad avere neanche i figli al funerale. Il grande sovvertimento di questi mesi, ci offre l’occasione per ripensare ai fondamentali dell’esistenza umana e, tra questi, al significato e al valore della famiglia.
I cultori di altre scienze da tempo fanno rilevare la relazione che esiste tra le generazioni. In questo complesso di storie particolari si costruisce l’identità di un territorio. L’esperienza dei capifamiglia chiamati all’arengo – la grande assemblea di uguali – “in Piazza Grande” a decidere sulle questioni comuni resta sì lontana nel tempo, ma manifesta un’esigenza ancora presente. Non si riesce a parlare di insieme, senza la famiglia. Non c’è Chiesa, senza di voi famiglie cristiane, ma non c’è neppure la società civile, che, almeno nella nostra visione del mondo, non è la contrapposizione di singoli che si scontrano, ma la bellezza di storie d’amore che fioriscono, durano nel tempo, generano il futuro e si addormentano nella speranza di trovarci insieme, non già entro le mura del Tarlati, ma dentro la Gerusalemme del Cielo.
In questo tempo difficile, la nostra Chiesa vuol dire il grande apprezzamento e il bisogno che ha delle famiglie, non già come soggetti perfetti, ma come popolo in cammino: non come aggregazioni fiscalmente rilevanti, ma come risorsa culturale che sopravvive alle difficoltà del presente.
La Chiesa aretina vuole dire grazie a tutte le famiglie che in essa si sono aggregate. Forse, sarà il tempo di riavviare una riflessione comune sulle distinzioni giuridiche elaborate quasi cento anni fa. Lo Stato e la Chiesa hanno entrambi interesse per la famiglia, che va comunque favorita e rispettata. Dalle finestre della casa del Vescovo, mi capita a volte di vedere coppie di giovani sposi che escono dal Comune, dove hanno sottoscritto la loro voglia di diventare una famiglia, e salgono le gradinate del Duomo per andare a fissare con la luce negli occhi la loro presenza presso la Madonna del Conforto. Questo fenomeno merita di essere approfondito, giacché l’identità del Matrimonio cristiano non è un problema di luoghi, ancor meno di stereotipi, ma il Sacramento che si esprime nell’amore vicendevole, aperto alla generazione della vita, durevole e unico nel tempo, in se stesso indivisibile. Non è solo un contratto, ma un Sacramento.
Credo che la Chiesa debba riavviare il dialogo con tutti e saper fare la profezia di distinguere tra le forme e la sostanza. Questi giorni di prova amara ci hanno fatto riconoscere il valore di vivere in famiglia, forse facendo riscoprire ai più giovani l’importanza della maternità e della paternità, il modello ideale di essere fratello e sorella che, anche scontrandosi sul caso particolare, si riconoscono in un vincolo familiare, che non è solo anagrafico.
- La famiglia, luogo della vita secondo lo Spirito
In questo tempo complicato che ha segnato le relazioni, cari cristiani della nostra Chiesa in terra d’Arezzo, la famiglia è stato uno dei pochi elementi vincenti. Non si è trattato soltanto di una sorta di prova del fuoco a cui la Nazione si è sottoposta. Il risultato comunque è positivo, il nucleo familiare ha ritrovato il modo di scoprirsi ancora capace di elaborare le difficoltà e, per di più, lo ha fatto con amore.
La prova e il dolore sono stati di tutti i membri, seppur con diversa consapevolezza. Gli anziani con rimpianto, gli adulti con dolore; i ragazzi, pur messi alla prova soprattutto per la mancanza di scuola e di sport, hanno reagito tendenzialmente assai bene.
Questa esperienza ci ha fatto ricavare non solo un positivo resoconto delle sfide superate, ma, soprattutto, una missione per il futuro dei cristiani che possono essere Annuncio del Vangelo nel loro stare bene insieme.
Venendo dalla Patria di San Benedetto dove venticinque anni fa ho avviato il mio Ministero Episcopale, mi viene spontaneo ricordare che uno dei maggiori Padri della cultura dell’Occidente ci insegna che la convivenza pacifica richiede alcune scelte di base. Non si sta bene se non si è prima di tutto in pace con se stessi, se cioè non si è capaci di consapevolezza e responsabilità. Ciascuno di noi ha delle doti invidiabili, nessuno di noi è senza fragilità o difetti.
Dio si fa pietra di paragone, perché il rapporto con lui diventa misura della capacità di essere beati costruttori di pace con gli altri.
Cinquanta anni fa Harvey Cox pubblicava a New York uno studio veramente provocatorio, dal titolo “La teologia della morte di Dio”. Purtroppo, in questo mezzo secolo abbiamo visto una lunga litania di eventi in cui è doveroso chiederci che razza di uomo abbiamo. Alla famiglia è chiesto di recuperare il rapporto con Dio, ciascuno con il proprio stile, perché non muoia l’uomo, unico soggetto creato capace di sperare.
Gli eventi terribili dei mesi passati ci hanno fatto percepire che il rapporto con gli altri non può essere costituito soltanto da elementi funzionali. Non c’è comunità vera che non parta dal modello familiare, accettato o criticato, riproposto o stigmatizzato. La famiglia è come il calendario con i suoi mesi: cambiano i contesti, ma in casa si misurano le stagioni della vita e anche la nostra generazione non può ignorare questo passaggio.
Vorrei che questa Festa della Madonna del Conforto in piena pandemia fosse l’occasione perché tutte le famiglie si rendessero conto del grande dono che sono le vicende d’amore e che tutti i cristiani tornassero ad avviare una riflessione corale sull’essere figli di Dio, in ogni realtà che nasce da una
storia matrimoniale.
Il lavoro che manca, nella crudezza della situazione attuale, ci obbliga a dare attenzione a quanti studiosi ragionano, in questo tempo, dell’economia sostenibile. Siamo venuti fuori dalle ideologie. Occorre uscire dalle inutili contrapposizioni, soprattutto da quella non ignorabile tra il profitto e i diritti della persona umana. Il lavoro non può essere mai obliato. Bisogna ritrovare pace con questa dimensione dell’essere.
Da ultimo, mi piacerebbe che, ragionando di famiglia, chiedessimo alla Madonna di insegnarci a trasformare il mondo, non a rovinarlo. Le Nozze di Cana, tra le tante valenze scritturistiche che sono state attribuite a questo episodio della vita di Cristo, potrebbero essere il segno che, come Vescovo,
torno a proporre alla mia Chiesa. Su una delle poche parole di Maria nel Vangelo c’è scritto: “Fate quello che Egli, Gesù, vi dirà”, allora l’acqua del pianto potrà ancora trasformarsi nel vino
della gioia.
[1] Celano, Vita Seconda, Cap. 74, in FF 695
[2] Lc 16,19-31
[3] Costituzione Dogmatica Sulla Divina Rivelazione, I, 2
[4] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, IX, 106