Festa del Beato Gregorio X: l’omelia del vescovo Riccardo

Cari sacerdoti, carissimi fedeli:

il Signore ci dia pace in questo giorno santo!

  1. Tedaldo Visconti e Guglielmino degli Ubertini in sinergia operativa

            “La gloria di Cristo rifulge nei suoi santi”. Arezzo è chiamata a misurarsi con il Beato Gregorio, uno dei grandi che nel suo passaggio in questa terra la segnò con la sua qualità, divenendo un esempio per i fedeli con la sua vita personale e con il suo magistero.

            Al suo dono dobbiamo l’edificazione della nostra cattedrale, che è il segno visibile, in cui si esprime l’unità e l’identità della Chiesa diocesana. La scelta degli antichi fu che il Duomo, e più ancora ciò che esso significa, fosse il punto di riferimento della comunità.

La collocazione nell’urbanistica medievale fece seguito ad una scelta ideologica. Diventò quasi il logo della città stessa di Arezzo. Fu il segno leggibile, il manifesto di una comunità dalla quale traiamo origine. Lo fu certamente con la sua destinazione al culto, ma non meno con la cultura di cui tuttora ripropone i temi, capaci di farci riflettere e meritevoli di essere decrittati. Dice l’Apostolo: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria … senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri”. Quale modello di Chiesa la cattedrale vuole proporre alle generazioni future? La scelta delle forme, narra il progetto di Arezzo alla fine del XIII secolo. Una comunità inclusiva, alla ricerca del trascendente nelle sue linee gotiche, ma solida e ben fondata, attenta alle maggiori realtà europee del suo tempo. Fu Papa Gregorio a volere che il Vescovo fosse in mezzo alla gente. Fu lui che, di ritorno da Lione, finanziò, con il tesoro di San Pietro, l’edificazione dell’attuale cattedrale nuova nelle forme rispetto alle consuetudini della sua epoca.

            La cattedrale è ancora il più ampio spazio coperto della città. È come dire che c’è posto per tutti: la casa di Dio lo è anche del suo popolo aretino. Costruire il Duomo in summo colle è una scelta di campo, un dialogo continuo e mai interrotto con tutti: da tutti è vista, dovunque ti poni.

            Esprime una Chiesa che non si nasconde, non si nega al dialogo, non si contrappone. È di tutti, ma è alta, sopra le fazioni. È di Pietro, cioè cattolica, ma egualmente di Donato, cioè aretina, cioè nostra.

            Non c’è uno spazio sacro e uno profano nella vita dell’uomo, che è un fluire continuo dove i temi della Grazia e della fragilità umana si intrecciano con combinazioni inattese eppure sempre degne di considerazione.

Il Duomo quasi ripete la cultura dei suoi edificatori. È come dire nell’ambiente culturale di Papa Gregorio non si può escludere Dio dalla quotidianità: è presente e interpella rispettando la libertà di ciascuno, ma a tutti proponendo quel percorso ascensionale che è la dimensione della conoscenza di Dio. Il Duomo in qualche modo è il corrispettivo dello itinerarium mentis in Deum, scritto qui in pietra, come Bonaventura proprio in quegli anni lo fissò a La Verna in riflessione filosofica e mistica letteratura. Non abbiamo anche noi bisogno di elevare la mente?

            Alla fine dell’800 la nostra cattedrale fu ampiamente studiata, cercando di cogliere il senso delle sue mirabili forme. I pilastri che sorreggono queste volte a crociera ribassata sono il costante tentativo della storia umana di quadrare il cerchio; i “numeri magici” con cui furono intrecciati, inanellando geometrie contrastanti, richiamano una scienza che non si contrappone mai alla fede.

  1. Il dinamismo culturale aretino nel XIII secolo, all’epoca di Papa Gregorio

            Le tre navi nel Duomo rendono possibile il pellegrinaggio attorno all’arca di San Donato e ribadiscono, con un linguaggio non consueto in Toscana, la centralità dell’altare e della Parola di Dio. L’ambone e i pulpiti evocano una coralità liturgica nordica, richiamano un pensare diverso da quello dei nostri vicini. Le sette ogive che filtrano la luce di vetrate – purtroppo solo in parte rimaste aperte – richiamano la scelta di edificare sul modello di Canterbury: non fu una scelta solo estetica, ma principalmente ideologica. Compresa la memoria martiriale che rammenta al fedele la nostra identità: tutto ruota attorno ai sacri misteri di Cristo presente nell’assemblea, che non rinunzia a ricordare che vogliamo essere un popolo peregrinante.

Il cammino nel tempo è una virtù che gli antichi ci tramandarono, perché sapessimo resistere alla tentazione della più facile stasi, del ripiegarsi su se stessi. Con lo spazio codificato del pellegrinaggio si ripete la volontà di una Chiesa in movimento, verso la città di Dio, che si raggiunge passando per la piazza della città dell’uomo, senza fughe in presunte combinazioni devote. Ancora possediamo gli inni di San Pier Damiano, che da Camaldoli ci dona il canto per il pellegrino, che entrando dalla porta di Mezzanotte, usciva dalla porta di Mezzogiorno, verso la città, rinfrancato dalle ragioni della fede e dalla identità di questa nostra gente, che già Gregorio Magno legava alla “virtutem Donati”. È il medesimo percorso spirituale dei pellegrini alla tomba del Vescovo Tommaso Becket, martire, custodito a Canterbury nello Shrine, nella stessa posizione dell’Arca di San Donato, come pure la cattedra di Sant’Agostino dove è quella nostra, come l’altare che già Vasari aveva visto nel luogo dove è attualmente: “di luce i sacri misteri” spiegano il colore di Lazzaro resuscitato, che ancor oggi fa filtrare la luce sulla mensa dell’altare. 

  1. L’eredità di Papa Visconti 

            Ben più preziose delle cose furono le virtù personali di quel Papa antico, che, qui sepolto, attende la resurrezione: diventano un programma di vita anche per la Chiesa aretina che gli è legata nei secoli. Uomo segnato dal Vangelo, negli anni sempre più splendente di carità e di mitezza, fu fermo nei principi, amabile nei rapporti, facendo eco con le opere alla pagina di Giovanni, che ci insegna come reggere la Chiesa universale. È un atto d’amore: “Simone di Giovanni mi vuoi bene tu più di costoro?…pasci i miei agnelli”. Integerrimo successore di Pietro, pronto a misurarsi con tutte le diversità del mondo, nella certezza dichiarata che lo Spirito ci invia ad ogni creatura, pur di essere vicini alle gente, anche quella del nostro tempo.

            Il Beato Gregorio ebbe la ventura di vivere in un periodo complesso e difficile per la Chiesa. A lui toccò nei cinque anni che resse la Sede Romana di illuminare il popolo cristiano con il suo ministero e di arricchirlo con il suo magistero, segnato dalle virtù della fortezza e della speranza. 184° Papa della Chiesa cattolica, fu eletto dopo 1003 giorni, nel conclave di Viterbo, dove i Cardinali non riuscivano ad accordarsi a trovare, tra di loro, il successor Petri ed allargarono lo sguardo agli uomini di Chiesa più stimati nel mondo. Gregorio incontrò nella sua vita santi e dottori. Si era fatto conoscere per la sua serena fermezza e la volontà di riforma dei costumi ecclesiastici. Bonaventura e Tommaso d’Aquino, i grandi del suo tempo che lo vollero loro amico, forse accrebbero il prestigio di Tedaldo. Fu designato Papa proprio lui, che neppure era sacerdote e divenne il Pastore della Chiesa universale. Una Chiesa non clericale che seppe scegliere un laico a successore di Pietro. 

  1. Gli obiettivi del programma pontificale

            Tedaldo, per difendere la Chiesa, aveva viaggiato molti anni, e al momento dell’elezione, era in Terra Santa, il luogo del suo amore e del suo riferimento. A San Giovanni d’Acri, gli arrivò la notizia che il primo settembre del 1271 i cardinali lo avevano votato Papa. Corse a Gerusalemme presso il Santo Sepolcro e nella preghiera si fece carico del Sommo Pontificato per amore di Gesù. Gerusalemme diventò il riferimento della sua storia e non per le vaghe ragioni della politica, ma per l’identità della Chiesa, nella speranza che i cristiani si ricompattassero, per la terra del Signore, che anche allora era sconvolta da mille prove come ora.

            Fece voto, prima di lasciare la terra di Gesù, sui ritmi del Salmo 137: “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”. Ecco gli ideali di Gregorio: la funzione aggregante della terra di Gesù, Gesù vivo, risorto, presente in mezzo a noi, riferimento immediato a ricomporre le divisioni della Chiesa. A Lione gli riuscì persino di rimettere insieme la Chiesa d’Oriente con quella d’Occidente. Il suo stile fu il pensare grande. Gregorio X è il Papa che mandò Marco Polo ambasciatore in Cina. Ricevette gli ambasciatori dei tartari e dei mongoli; strinse relazioni con quel Kublai Khan che avviò la dinastia Yuan, la grande dinastia che ricompose la Cina.

Gregorio X fu soprattutto il Papa dei poveri. Mise la scomunica a chi avesse provato a fare l’usura, in un’epoca in cui tutti si approfittavano dei poverelli, come succede ancora oggi. Il Papa intervenne e con coraggio escluse dalla comunione della Chiesa quanti provassero ad approfittarsi dei poveri. Istituì, inoltre, nella Curia romana l’Elemosineria Apostolica, che ancora oggi continua ad operare verso i più deboli.

Volle la riforma del clero e del laicato. Aveva tante volte nella sua vita pagato di persona. Voleva una Chiesa santa e splendente.

            Il 13 maggio 2012, durante la visita pastorale ad Arezzo compiuta da papa Benedetto XVI, rivolgendosi agli aretini durante l’omelia disse: “Nella vostra Cattedrale è sepolto il beato Gregorio X, Papa, quasi a mostrare, nella diversità dei tempi e delle culture, la continuità del servizio che la Chiesa di Cristo intende rendere al mondo. Egli, sostenuto dalla luce che veniva dai nascenti Ordini Mendicanti, da teologi e Santi, tra cui san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio, si misurò con i grandi problemi del suo tempo: la riforma della Chiesa; la ricomposizione dello scisma con l’Oriente cristiano, che tentò di realizzare con il Concilio di Lione; l’attenzione per la Terra Santa; la pace e le relazioni tra i popoli”.

            A noi che siamo continuamente tentati di rimanere dentro le nostre quattro valli, questo Papa, che qui in Arezzo aspetta la resurrezione, ci indica la Cina, il nuovo, le diversità, senza paura! Ci insegna a misurarci con un mondo diverso, più largo, meno timoroso. Ci insegna che si può far pace anche con Kublai Khan, pur di annunziare Gesù! Senza presunzione, in umiltà, come Bonaventura, il suo grande amico. Il primo coraggioso gesto da Papa fu proprio quello di farlo cardinale, il frate, l’amico di San Francesco, donando fiducia al nuovo, riconoscendo la dimensione evangelica del francescanesimo. Ecco la gloria di Cristo! Non nelle guerre, ma nella ricerca di affermare e cercare il vero. Questo Papa torna a insegnarci il valore delle relazioni. Il santo che ha fondato il Duomo, lasciandoci tutto quello che aveva, ci insegna a fare rapporti. Ad avere in onore il mondo universitario, lui che passò da un’istituzione all’altra pur di ragionare di un’Europa allora tanto divisa.

            I Santi ci insegnano a svegliarci, a uscire dal sonno, ad avere il coraggio delle riforme, il coraggio del nuovo. Di mettere mano anche dentro la Chiesa, rimettendo la santità e il Vangelo al primo posto.

Già Paolo VI, nel 1976, con una lettera al Vescovo di Arezzo, si rivolgeva a tutti gli aretini: Gregorio X è stato “un pastore così grande, al quale si adattano bene le parole di Sant’Agostino: Ha sempre di che dare chi ha il cuore pieno di carità”.

Il Santo Sinodo che stiamo celebrando fa tesoro delle nostre radici, della testimonianza e dell’esempio di Papa Gregorio e, rifondandosi sul suo ministero, guarda con speranza al futuro, nell’impegno di dare il contributo di questa generazione cristiana al cammino della Chiesa di San Donato, che a noi oggi è affidata.