Venerati fratelli nel sacerdozio,
carissimi sinodali:
il Signore ci dia pace in questo atto ecclesiale, che stiamo facendo!
1. La comunione con il Vescovo di Roma
Il Santo Sinodo aretino è chiamato nella cattedrale per rinnovare quest’oggi la piena comunione della nostra Chiesa diocesana con il Papa.
Non è un atto dovuto e neppure formale. È invece un tema, che ci fa riflettere sul significato vero di comunione. L’Apostolo Giovanni insegna che chi dice di amare Dio, ma non ama i propri fratelli “è un mentitore”[1]. Questa è l’occasione propizia per ripensare che non abbiamo la possibilità di piamente moltiplicare le comunioni eucaristiche e poi non curare la comunione con la nostra Chiesa. Il cammino sinodale serve per recuperare questa dimensione.
Comunione e comunicazione hanno la stessa radice. Talvolta si ha l’impressione, nella Chiesa, di parlare tra “sordi e muti”. Si sente quel che vien detto, ma non si interiorizza. È un continuo parlare, ma non si costruisce la comunità ecclesiale.
Allo stesso modo, la comunione col Papa non è un generico sentire e tantomeno un banale commento al suo autorevole insegnamento. Noi, questa sera, vogliamo fare un atto di comunione col Papa, che sia costruttivo e costitutivo della nostra identità ecclesiale. Ci poniamo innanzitutto in ascolto e prendiamo per vero quello che dice, pronti a metterlo in pratica.
Ieri sera, ero in San Pietro, dove fui ordinato vescovo. Pietro parlava ai nuovi cardinali e anche a tutti noi. La sua scelta è stata innanzitutto di conforto, ricordando alla Chiesa che non siamo soli, non abbiamo solo precetti da ottemperare. Ci è chiesto di seguire con amore Gesù, che apre sempre la strada, come in quel delicatissimo passaggio del Vangelo, “in cammino verso Gerusalemme, non trascura di precedere i suoi”. Allora per i discepoli, resi consapevoli dell’imminenza della Passione, Gerusalemme fu l’ora “delle grandi determinazioni e decisioni”, che sgomentavano perfino gli Apostoli.
I 500 sinodali qua convenuti hanno passato due mesi, analizzando ciò che esiste nella nostra diocesi e cercando di individuare ciò che dovrebbe essere fatto; anche per noi il Sinodo è l’ora delle determinazioni e decisioni. Gesù, che ci precede, ci insegna a non aver paura dei cambiamenti. Come la Chiesa della prima ora, il rischio della ricerca dei primi posti, gelosie, invidie, intrighi, aggiustamenti e accordi sono una tentazione anche per noi e generano “discussioni inutili e di poco conto”. Ricorda il Papa che “Gesù però non si ferma su questo, ma va avanti, li precede e con forza dice loro: «Tra voi non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore»”[2]. Con tale atteggiamento, il Signore vuole ricentrare lo sguardo e il cuore dei suoi discepoli, non permettendo che le discussioni sterili e autoreferenziali trovino spazio in seno alla comunità. L’affermazione di Gesù “tra voi però non è così”[3] è un invito a recuperare il meglio che c’è tra di noi e a non lasciarci rovinare da logiche mondane, che distraggano da ciò che è importante. Non giova la polemica all’interno della Chiesa, conviene invece “rivolgere lo sguardo, le risorse, le aspettative e il cuore a ciò che conta: la missione… La riforma della Chiesa è e sarà sempre in chiave missionaria, perché presuppone che si cessi di vedere e curare i propri eccessi, per vedere e curare gli interessi del Padre”.
Cari sinodali aretini, quando ci dimentichiamo della missione, perdiamo di vista il volto concreto dei fratelli e la nostra vita si rinchiude nella ricerca dei propri interessi e delle proprie sicurezze. Nel nostro cammino sinodale, se vogliamo essere in comunione con Dio e con il Papa, è da ricordare che l’unica autorità credibile è quella che nasce dal mettersi ai piedi degli altri per servire Cristo. “È quella che viene dal non dimenticare che Gesù, prima di chinare il capo sulla Croce, non ha avuto paura di chinarsi davanti ai discepoli e lavare loro i piedi”. Essere stati scelti per rappresentare la Chiesa aretina in Sinodo è un grande privilegio, ma la maggiore promozione, che ci possa essere conferita, è “servire Cristo nel popolo fedele di Dio, nell’affamato, nel dimenticato, nel carcerato, nel malato, nel tossicodipendente, nell’abbandonato, in persone concrete con le loro storie e speranze, con le loro attese e delusioni, con le loro sofferenze e ferite”.
Quando il Sinodo sarà finito, ritornando alle nostre comunità, ciascuno nel proprio ruolo e nella propria vocazione dovremo tener presente l’insegnamento di Giovanni che chi dice di amare Dio e non ama i fratelli mente.
2.Chiamati a riconoscere l’opera di Dio in mezzo a noi
Nella festa dei Santi Pietro e Paolo, il Santo Sinodo è convocato per la redditio. A minuti, i moderatori dei circoli minores verranno a portarmi il frutto della riflessione comune. Con questo gesto, quasi provocatorio, la Chiesa che mi è affidata mi chiede di ricordarmi, criticamente, quale successore degli Apostoli in mezzo a voi, che ho il dovere di rappresentare il Signore, al quale, di fatto, offriamo il lavoro sinora svolto.
Viene dal cuore di dire grazie, perché nessuno dei 42 circoli ha preso con leggerezza il lavoro, che è stato loro affidato. Secondo lo stile delle persone, tutti si sono incontrati perlopiù 5 volte per esaminare l’Instrumentum Laboris e dare il loro contributo. Alcuni hanno voluto farlo ben 8 volte. Il tutto in appena due mesi. È dono dello Spirito Santo, la responsabilità ecclesiale, che è venuta alla luce. Anche noi possiamo dire, con l’Angelo della Resurrezione, che il Signore “è risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”[4]. Ovviamente la nostra Galilea è il luogo della vita quotidiana, le gioie e le difficoltà che incontreremo. Già l’Evangelo esprime che la Chiesa è un’esperienza di cammino insieme, un “verbo di moto”. Se c’è un peccato che non dobbiamo fare è quello di guardarci e compiacerci di quel che siamo stati e di fermarci sulla tradizione, anziché sul tradere, che è consegnare l’esperienza cristiana agli altri; una “Chiesa in uscita”, come dice il Papa in Evangelii Gaudium[5].
Siamo qua per guardarci in faccia e scoprire nell’altro il segno della fede e la disponibilità ai cambiamenti che il Signore ci chiede, quantomeno quelli interiori del disimpegno e del lasciarsi andare, nel ripetere semplicemente i gesti sacrali e le consuetudini, come richiesto ai Leviti nel Vecchio Testamento.
Al Divino Spirito, che ci ha mostrato la sua Benedizione già ai primi passi di questo Sinodo, chiediamo di proseguire a darci il coraggio degli Apostoli e dei Martiri. Forse, anche inconsapevolmente, siamo qui per prometterci tutti di provare a diventare santi, ognuno a suo modo, mettendo a frutto i talenti ricevuti, trasformando la fede in opere e giorni.
3. Il primato della Scrittura conforta gli animi dei credenti
Vi è una lettura simbolica della carcerazione di Pietro in Atti 12, che abbiamo ascoltato questa sera. Anche dalle difficoltà più gravi, da ciò che ci blocca e talvolta ci incatena, il Signore vuole liberarci se la nostra Chiesa saprà far salire “incessantemente a Dio una preghiera”[6], perché possiamo uscire realmente dalle trappole, che ci sono state costruite nella storia: sono la caduta della credibilità, il disinteresse per la dimensione dello spirito – che ci appartiene ancor più dei soldi e dell’economia – e la marginalizzazione dell’esperienza cristiana, che viene promossa nella cultura prevalente.
“Mettiti il mantello e seguimi”[7], seguita a dire l’Angelo alla Chiesa; e se anche sembra impossibile, utopia la missione che ci è proposta, ricorderemo che anche Pietro “non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo”[8]. Nei lavori sinodali di questi due mesi, alcuni hanno manifestato il timore che si vada a scrivere il libro dei sogni e che è troppo difficile tentare il cambiamento di questa Chiesa con le poche forze, che crediamo di avere. Mi piace ricordare l’avventura di Gedeone, al quale Iddio chiese di andare alla prova con un minimo numero di persone, perché tutti si rendessero conto che è Dio che guida il suo popolo[9] e non l’efficienza dell’organizzazione.
Paolo, in questo giorno solenne, ci insegna che l’esperienza cristiana va vissuta come una gara sportiva e, se serve, fare una “buona battaglia”[10], cioè quella che non sconfigge, ma convince, quella del dialogo e non dell’imposizione. Per realizzare questo progetto e perché sentiamo di avere effettivamente parte in esso, Dio non ci libera dalla fatica, dalle prove e talvolta neppure dalle sconfitte, purché conserviamo la fede in Lui. Ripeto, con il Santo Vescovo Martino: “Non recuso laborem”[11].
Cari sinodali, non siamo chiamati a strategie o a rinnovare l’organizzazione ecclesiastica ma a recuperare il senso ecclesiale della fede, a ritrovare la nostra identità di popolo di Dio, pellegrino in terra d’Arezzo.
A questa Chiesa, anche nel nostro tempo, la gente chiede “chi sia il Figlio dell’uomo”[12]. Qua riuniti per riaffermare la nostra vicinanza a Pietro e la nostra obbedienza alla Chiesa, ci ripetiamo stasera che “le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”[13], purché si usino le chiavi per aprire il Regno di Dio a tutti coloro che lo cercano, pratichiamo la misericordia con tutti e ci chiniamo come Cristo a lavare i piedi dei nostri fratelli.