- Cari fortemarmini: siete parte della mia anima
Avevo appena cinque anni, quando cominciai qui a fare il chierichetto con don Cesare parroco e don Janni ancora cappellano. Ogni volta che andavo a servire la messa, mi faceva ripetere le risposte latine, perché – diceva – che le cose, se si fanno, vanno fatte bene. È uno dei tanti doni ricevuti dal mio prete. Per dire la verità, non solo a me, ma anche a quel gran giro di ragazzi di cui anche io facevo parte. Le foto dell’epoca mostrano i volti di quegli amici.
La canonica era sì la casa dei preti, ma soprattutto era un punto di riferimento per tutti. Quando capitava un approccio culturale, don Janni aveva sempre a tiro un’enciclopedia e ci insegnava a non essere approssimativi quando si ragiona di cultura.
Poi, il Padreterno mi ha fatto un dono enorme, che mi è servito per tutta la vita. Come voi del Forte sapete, sono figlio di una delle famiglie più antiche del paese, ma, per un pasticcio di cui non erano direttamente responsabili i miei, ci saltò la casa e tutto il resto. Passammo qualche anno di povertà nera, che sono stati per me una scuola incredibile per aiutarmi a capire, da prete e da vescovo, le tribolazioni degli altri.
Appena presa la maturità, un giorno a tavola dissi ai miei che volevo entrare in seminario. “Ma come? Ma perché? Ma quando lo hai deciso?”. È buffo che le perplessità venissero dai miei fratelli, tutti dell’Azione Cattolica. Mio padre, invece, che era come sempre sobrio ed equilibrato, mi disse “Sono cose serie. I Fontana non fanno i buffoni. Scegli con libertà, ma sii responsabile”. Raccontai i miei pensieri a don Janni, che con pacatezza mi disse: “Domani andiamo dall’Arcivescovo”. Era l’indimenticabile Ugo Camozzo, che mi aveva preso in collo quando ero bambino, durante le interminabili riunioni di Azione Cattolica a Pisa, a cui partecipavano i miei fratelli, portandomi con loro. Forse, si annoiava anche l’Arcivescovo che, mentre tutti parlavano, era l’unico che giocava con me bambino. Non me lo sono mai dimenticato.
Di mio, come tutti i miei coetanei: piccole storie d’amore, come ogni adolescente. Una in particolare, che spero dal Cielo sorrida come me al ricordo, comunque dolce.
Alla fine, entrai in seminario: una bella esperienza di comunità, mai dimenticata. Mi permise di conoscere i preti e quelli che lo sarebbero poi diventati, insieme a un tour d’horizon sul territorio vasto della Diocesi.
Il giorno di San Ranieri, mentre si andava alla porta di fondo del Duomo di Pisa ad accogliere l’Arcivescovo per il Pontificale del Patrono, don Dianich, sobrio e deciso come sempre, mi disse: “Con il collegio dei professori, abbiamo deciso di mandarti a studiare a Roma, alla Gregoriana”. Nessun ulteriore commento. Furono anni di maturazione umana e di incredibile esperienza cristiana. Anni di comunità e di amicizia con gente che veniva dalle varie parti del mondo. Già ventenne apprendevo la passione per la Chiesa – esperienza del Vaticano II – ancora viva oggi.
Poi la pastorale imparata a Roma: il primo di tanti gruppi giovanili, un modo di fare il prete, che mi è rimasto sempre.
- Sant’Ermete: la cultura del mare e i fuochi di sant’Elmo
Il mio don Janni, diventato nel frattempo parroco, riuscì sempre a raccontare bene a noi fortemarmini la storia di sant’Ermete, rifacendosi alla lapidaria sintesi del celebre Papa Damaso: “Iām dūdūm, quōd fāmă rĕfērt, tē Graēcĭă mīsīt”. Fu un tentativo dell’antico professore di storia del seminario di Fiume di dare a noi fortemarmini consapevolezza culturale sul Patrono. L’impresa era mettere insieme la cultura del mare e le ragioni per cui il martire romano fosse diventano nostro Patrono. Era un Forte tanto diverso da oggi, quando i nostri possedevano più di settanta “navicelli”. Il mare era un soggetto attivo quando i nostri, per lavoro – non certo per diporto –, navigavano. Il mare fonte di lavoro, ma anche di cultura.
Ogni famiglia aveva fatto esperienza delle interminabili storie dei nostri che, tornando dai “viaggi”, raccontavano. Noi s’imparava l’apprezzamento per le diversità di stile di vita, che hanno formato la nostra personalità alla pari del Fortino.
Poi le carte si sono mischiate, ma siamo sempre noi: io, prima prete a Roma, poi in paesi lontani, di nuovo a Roma, accanto ai colossi della storia della Chiesa, Silvestrini, Casaroli e Sodano, che per sette anni mi volle al suo fianco.
Rimasi per due anni il più giovane Arcivescovo d’Italia, quando Papa Giovanni Paolo mi volle Vescovo a Spoleto e Norcia, devastate dal terremoto del ’79.
L’identità di sant’Ermete, dove Papa Damaso in poche righe aveva fissato la nostra storia comune, ci ha segnato. Greco di nascita e colto; “liberto” nella capitale dell’Impero, diventando cittadino romano, per il proprio sangue versato nel martirio, seguita a intercedere. Anche al Forte è venuto da lontano, per un singolare mito dei nostri vecchi, che navigavano a vela, tra incredibili difficoltà e memorabili tempeste, a rischio di perdere con l’alberata anche il pane quotidiano. Forse, i nostri impararono a Malta, nella punta sud orientale, dove sant’Ermete dà il nome alla struttura maggiore del porto, che è la sicurezza dopo la tempesta. I nostri chiamarono “fuochi di sant’Elmo” le scariche elettriche in cima all’albero di maestra che, al loro comparire, erano il segnale della fine del pericolo. E sant’Ermete è ancora oggi legato ai fuochi nella memoria collettiva, anche se pochi sanno della memoria della catacomba romana che porta il nome di sant’Ermete, sulla Salaria Vetus.
Ricordando quando cinquant’anni fa diventai prete, ringrazio l’attuale Proposto del Forte, che mi ha invitato a questa messa, proprio qui dove celebrai l’Eucarestia per la prima volta. Appena ordinato, malgrado i lavori in corso, mi capitò di farlo dentro la grande aula che le canossiane, in tempi lontani, avevano allestito per la prima elementare e dove c’ero stato anche io, avviando in quel luogo il primo apprendimento del sapere.
Anche io ho navigato attraverso molte tempeste, non già per le quasi duemila ore di volo, ma, come i miei vecchi, mai per divertimento. Il Signore non mi ha mai abbandonato e il suo Vangelo continua ad essere fonte di vita, mentre avvio l’ultima parte del mio viaggio terreno, cessando il servizio di governo, ma non la preghiera, disinteressato agli onori, ma desideroso di raggiungere il porto sicuro dove trovare la pace.
- Una nuova storia d’amore
Come da noi sant’Ermete, in Arezzo il Patrono è Donato, secondo vescovo della città. Già Gregorio Magno, nel VI secolo, diceva che un vescovo per Arezzo va bene solo se dona se stesso.
Tredici anni fa, lasciare Spoleto fu doloroso, ma è la logica dell’obbedienza al Papa, se manca la quale si vale proprio poco. Non puoi chiedere collaborazione agli altri, se tu stesso sei in difficoltà a collaborare con il resto della compagnia, successori, come siamo di Pietro e di Paolo e degli altri Apostoli.
Le ragioni della storia recente hanno fatto diventare la Diocesi di cui sono ancora Pastore troppo vasta, la dodicesima per estensione in Italia. Sono stati anni operosi: intanto, per avviare le parrocchie che erano state 912 all’unità di intenti sulle cose che contano. Si tratta di un problema di tutte le Chiese particolari; forse di meno per questa Chiesa che mi ha generato, perché la cultura del mare predispone ad accogliere le diversità, senza perdere d’identità.
La vita interiore dei cristiani si regge sulla Parola di Dio, che genera la fede, sulla fiducia nel Signore, ed è l’amore, che in Chiesa si chiama generalmente carità, che dà senso ad essere popolo di Dio, come qui al Forte ho imparato, in questo paese, dove i volti non furono mai anonimi. Si può avere pensieri diversi, ma questo non significa non ascoltarsi e non stimare le diversità che comunque arricchiscono.
So bene che è difficile aiutare la gente ad accogliere il Vangelo. Purtroppo, lo è in modo particolare per il laicato del nostro tempo, in cui le famiglie si spaccano per mille ragioni, ma forse anche perché educhiamo le generazioni future a pensare a sé, facendo fiorire un’erba malefica che è figlia dell’egoismo.
A che serve la Chiesa? A molte cose, ma principalmente ad aiutare i propri figli a non perdersi di coraggio, perché Dio sa fare meraviglie. Mi viene talvolta da chiedermi come faccia Dio a seguitare ad essere generoso, per esempio a donare ai giovani di oggi splendidi bambini, consapevole com’è non già dei tradimenti di storie parallele, come all’epoca dei nonni, ma a misurarsi con l’indifferenza che fa perdere la grinta. La rabbia non serve a nulla. Occorre invece che la comunità non isoli chi è nella prova e la memoria di gesti d’amore, che non possono essere tutti stati finti, riprenda il passo giusto per andare avanti. È come quando uno vuole entrare in casa sua, ma la porta è chiusa a chiave. Ne hai un mazzo nelle tasche, ma trovare quella giusta richiede pazienza, anche se sei pienamente consapevole di avere quella che apre l’uscio dei cuori.
Anche io sono chiamato ai miei 75 anni a ricordare le promesse fatte a Dio e al mio popolo cinquant’anni fa – ecco il Giubileo sacerdotale: devo provare ad essere fedele alla Chiesa che mi è stata affidata. Non la lascerò per via dell’anagrafe che corre, correndo invece il rischio di non diventare un dono non utile, ma come quello di san Donato, speso una volta per tutte, come 114° successore del Patrono aretino.
La messa è, in sua natura, ringraziamento a Dio e ai fratelli. Sono lieto di pregare con voi, in questo luogo per me magico, dove, molto bambino, ho imparato a giochicchiare al pallone, ma soprattutto a far memoria, care sorelle che mi avete ancora una volta accolto, di quelle donne favolose che scelsero d’essere di verginità consacrata nostre madre ed educatrici.
I fortemarmini presenti ricordano, tutti con me, madre Maria, madre Santi – grande maestra di vita e di scuola –, e l’equilibrio di una comunità variata nel tempo, ma identica nel dono di sé.
Portandomi nel cuore queste rinnovate memorie, per tutti voi offro questa messa, pregando per quel gran numero di fortemarmini che, dalle varie famiglie – la mia compresa –, sono già andati avanti e ci aspettano nella Gerusalemme del Cielo.