Omelia per la messa dei defunti delle forze dell’ordine

27-11-2009

La memoria dei cristiani che spesero la vita al servizio del bene comune ci induce ad una doverosa riflessione sul senso della vita e sulla valenza della morte. La vita è un dono prezioso; la morte, per noi cristiani, è  il termine del percorso su questa terra, prima di passare al regno dei cieli. La Parola di Dio che abbiamo ascoltato nella liturgia ci affascina con il riferimento all’Arcangelo San Michele, “pesatore di anime”. Non qualunque modo di vivere la vita per noi va bene; non qualunque  comportamento è indifferente. Alla luce della Parola di Dio noi riteniamo che tra gli uomini e le donne del mondo vi siano saggi e stolti. La vita può essere spesa con sapienza o dissipata. La Bibbia ci insegna che  “i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento”. Coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle del cielo. Indurre alla giustizia le moltitudini è l’impegno di quanti scelgono il bene comune come causa che determina la loro vita; come fine al quale dedicare le forze di ogni giorno; come metodo per valutare la qualità delle scelte.
Facciamo oggi memoria di uomini e  di donne che nel servizio agli altri nella cosa pubblica hanno dato la vita. Siamo raccolti, nel rispetto e nella preghiera, per cogliere il messaggio di uomini e donne che noi riteniamo illustri, non solo nell’ordine delle cose di questo mondo, ma che anche alla luce della fede stimiamo siano veramente benemeriti. Indurre alla giustizia con il proprio esempio è il modo giusto perché sia  efficace il contenuto delle nostre dichiarazioni. La coerenza è quella virtù profondamente laica e al tempo stesso evangelica, per rendere credibile ciò che noi affermiamo. Sappiamo bene che il tempo presente è solo una strada, un percorso per altro anche veloce, su cui ciascuno è chiamato a incamminarsi. Già gli antichi ripetevano: ruit hora. Nel corso della vita sono poche le occasioni che ci sono date per esprimerci. I santi Padri ricordano che gli anni di un uomo sono meno degli steli di grano che il mietitore antico riesce a raccogliere con la mano perché la falce li recida. Un mannello di steli di grano è sempre più numeroso dei nostri anni. “La nostra patria è nei cieli” ci ripeteva stamani l’apostolo Paolo. Questo tempo ci è dato per costruire la grandezza della persona, per esprimere la nostra qualità, per migliorare con le nostre relazioni il mondo. La vita è un tempo di prova e di grazia: un tempo da non dissipare, da valorizzare, sapendo che solo l’impegno darà prospettiva a quello che ci è dato di vivere. In questo tempo breve che è la vita terrena, l’Evangelo, abbiamo ascoltato oggi, ci dice “siate pronti con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”. I due segni del linguaggio lucano non sfuggono alla comunità cristiana. Le vesti strette richiamano la Pasqua . Nelle norme del libro dell’Esodo è detto di avere le vesti strette ai fianchi per fare la cena pasquale, cioè essere pronti al viaggio, disponibili a muoverci sempre e subito nella vita. Questa immagine è cara a tutti coloro che intendono lavorare per il bene comune. E’ esperienza di tutti i servitori dello Stato, i quali in ogni momento sono tenuti ad essere pronti.
Il tema delle lampade accese, ci richiama all’impegno di far luce intorno a noi. Chi assume ruoli pubblici ha il compito di illuminare la strada agli altri. Ce lo ripete il Vangelo continuamente. In questi tempi recenti anche il Supremo Mandatario dello Stato lo ha ripetuto varie volte. Chi più è costituito in autorità, maggiormente è tenuto a dare il buon esempio: nel rispetto della legge, nella cultura del bene comune, nell’impegno per le cose che contano.
Per  i cristiani le lampade accese sono il segno della festa a cui ci avviamo dopo la morte. Sì, al termine di questo tempo di prova, il Signore per noi ha preparato una grande festa. Come disporci? Come prepararci a questo evento di piena umanità, dove si realizza fin d’ora, in questo tempo presente, la nostra storia?
Libertà e vita sono entrambi  nomi di Dio, e non possono mai essere in contraddizione l’uno con l’altro. A tutti coloro che si ispirano al Vangelo è palese che la difesa della vita va assicurata, dal suo concepimento fino al suo esito naturale. Ci rallegriamo che anche quanti hanno convinzioni diverse dalle nostre, in questa civile società aretina, escludano l’eutanasia. La Chiesa esprime profondo rispetto per le persone colpite da grandi mali e anche per i loro congiunti e i loro amici. Mentre già la dottrina cattolica rifiuta l’accanimento terapeutico, quanti si professano cristiani sono invitati a tener lontana ogni ideologia dal capezzale di chi è vicino alla morte e ad affidarsi all’etica professionale degli operatori sanitari, che sin da Ippocrate,  manifesta il favor vitae. Siano essi a decidere quale strumento terapeutico impiegare perché la persona umana, creata a immagine di Dio, possa vivere in modo adeguato anche i momenti che la separano dal transito all’altra vita. Nel territorio dove Frate Francesco visse a la Verna vicende che ancora illustrano la nostra terra aretina, la comunità cristiana ripete con il Poverello la preghiera: “ Laudato si’ mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, dalla quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà nelle Tue sanctissime voluntati”.