Con il ritmo gioioso d’ogni mattina, all’avvio della preghiera, si rallegra la Chiesa di San Donato, contemplando la Gerusalemme del Cielo in questa Pasqua di Ognissanti. Il Signore dopo 7 anni ci concede ancora la grazia del sacerdozio ministeriale, dandoci modo di ordinare presbiteri, insieme, due giovani diaconi, che hanno maturato il loro percorso vocazionale nelle nostre comunità.
Questa celebrazione rende visibile il percorso della Chiesa come popolo in cammino verso la città dei Santi: una sorta di esodo dalla Babele del tempo, verso la città dalle salde mura. Si fa nostro il Vangelo di Gesù praticando nel tempo della vita la fede operosa, la fatica della carità, la fermezza della speranza[1]. Il Signore chiama ogni battezzato a esprimere la propria adesione a Dio con ruoli e vocazioni particolari e diverse. “Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e, con affetto di predilezione, sceglie alcuni tra i fratelli che, mediante l’imposizione delle mani, fa partecipi del Suo ministero di salvezza”[2].
- Il dono del presbiterato è per il popolo di Dio
Nella tradizione cattolica, il presbitero è maestro della Parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità cristiana affidatagli. Egli è chiamato a condividere questa grazia ricevuta, costruendo di giorno in giorno una sempre più intensa comunione con il vescovo, successore degli Apostoli, ed il resto del presbiterio diocesano. Alessandro e Leonardo iniziano oggi, nella grazia del sacramento, un cammino di riflessione sulla loro nuova identità e sulla missione che assumono all’interno della Chiesa.
San Paolo dice di noi che siamo “Ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”[3]. L’unico sacerdote è Gesù; noi, per la grazia dello Spirito Santo, siamo fatti partecipi del Suo sacerdozio. La configurazione a Cristo tramite la consacrazione sacramentale, colloca, noi sacerdoti in seno al Popolo di Dio, facendoci partecipare in modo proprio e in conformità con la struttura organica della comunità ecclesiale al triplice munus Christi. Agendo in persona Christi Capitis, il presbitero pasce il popolo di Dio conducendolo verso la santità, che è il primo e fondamentale servizio che ci è affidato, gli occhi rivolti alla Gerusalemme del Cielo, particolarmente contemplata in questo giorno solenne dei Santi[4].
Il primato della santità, come principale scopo della nostra consacrazione, fa emergere la “necessità della testimonianza della fede da parte del presbitero in tutta la sua vita, ma, soprattutto, nel modo di valutare e di celebrare gli stessi sacramenti”[5]. Come insegna il Concilio Vaticano II “pur essendo vero che la grazia di Dio può realizzare l’opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, ciò nondimeno Dio, ordinariamente, preferisce manifestare le sue grandezze attraverso coloro i quali, fattisi più docili agli impulsi e alla direzione dello Spirito Santo, possono dire con l’apostolo, grazie alla propria intima unione con Cristo e alla santità di vita: ‘Non sono più io che vivo, bensì è Cristo che vive in me’(Gal 2, 20)”[6]. Questa dimensione del sacerdozio, per così dire “si incarna” in quella particolarissima rete di relazioni che è la comunità cristiana, questa Chiesa di San Donato, nella quale da questa sera diventate ministri. Il nostro servizio, che pure si esprime attraverso le qualità umane che il Signore ci ha donato, deve sempre avere una valenza soprannaturale. Il modello è quella mirabile comunità che Gesù stesso adunò e, dopo la Risurrezione, come Lui, tutti gli apostoli, dando vita a quella comunità postpasquale che è il primo avvio della Chiesa. Questo complesso di rapporti è conseguenza del nostro essere ministri dell’Eucaristia. “Amici: così Gesù chiamò gli Apostoli. Così vuole chiamare anche noi, che, grazie al sacramento dell’Ordine, siamo partecipi del Suo Sacerdozio. (…) Poteva Gesù esprimerci la sua amicizia in modo più eloquente che permettendoci, quali sacerdoti della Nuova Alleanza, di operare in suo nome, in persona Christi Capitis? Proprio questo avviene in tutto il nostro servizio sacerdotale, quando amministriamo i sacramenti e specialmente quando celebriamo l’Eucaristia”[7].
Come insegna il Presbyterorum Ordinis: “L’Eucaristia costituisce, infatti, la fonte e il culmine di tutta l’evangelizzazione”[8]. Ricordate, o figli, che il rigoglio della vita cristiana in ogni Chiesa particolare e in ogni comunità parrocchiale dipende in gran parte dalla riscoperta del grande dono dell’Eucaristia, in uno spirito di fede e di adorazione.
- Il sacerdote ministro della pace
Con la sua stessa vita al sacerdote è chiesto di fare da ponte fra gli uomini e il Signore inducendoli ad avere pace con Lui. Il precetto della carità vuole anche che l’uomo di Dio favorisca la pace degli uomini fra di loro, facendo del tutto, con la preghiera e con le opere, perché la pace trionfi nei rapporti umani vicini e lontani. La preghiera di ispirazione francescana: “O Signore fa’ di me uno strumento della Tua pace” esprime una condizione che è di tutti i cristiani e massimamente dei sacerdoti. In un mondo in cui il senso del peccato è in larga misura venuto meno, è necessario ricordare insistentemente che è proprio la mancanza d’amore a Dio ciò che impedisce di percepire la realtà del peccato nella sua intera malizia. L’avvio della conversione non soltanto come momentaneo atto interiore, ma come stabile disposizione, prende il suo slancio dall’autentica conoscenza dell’amore misericordioso di Dio. L’attitudine a convertirsi quotidianamente al Vangelo è patrimonio dei battezzati: “Voi un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia”[9].
Essere ministri della misericordia è la parte più dolce del nostro ministero: che è fatto di cose semplici sotto il profilo umano: nessuno respingere, tutti aiutare, a ciascuno far riscoprire la bontà del Signore. È una grande meraviglia scorgere l’efficacia della grazia sacramentale, attraverso la quale la grazia dello Spirito Santo solleva e rischiara, conferma e dà valore soprannaturale alle nostre povere risorse. “Lasciatevi riconciliare con Dio”[10], ci insegna San Paolo “Dio ha affidato a noi il ministero della riconciliazione… In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta”[11].
“Sacerdos et hostia”. All’autentica misericordia è essenziale la sua natura di dono. Essa va accolta come dono immeritato che viene gratuitamente offerto, che non proviene dalla propria benemerenza. Questa liberalità s’inserisce nel disegno salvifico del Padre, poiché “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”[12]. Ed è proprio in questo contesto che il ministero ordinato trova la sua ragione di essere.
Siamo ministri di Dio nella Chiesa di San Donato. Il Santo Martire ci insegna la misura del nostro essere sacerdoti. A ciascuno di noi è chiesto di essere altri “donati”. Cari giovani figli, tra breve partecipi del sacerdozio di Cristo, ci è chiesto di offrire a Dio noi stessi, attraverso il nostro servizio al Suo popolo. Ricordate: una volta che ti sei donato, non puoi più disporre di te stesso: sei di Dio e della Sua Chiesa. Stasera si avvia per voi questa nuova dimensione della vostra vita, il carattere del sacramento dell’Ordine. Nella misura che ripeterete nel rito le parole e i gesti di Gesù, anche a voi tocca, con la vostra vita e le vostre parole, conformarvi a Cristo. Nessuno può conferire a se stesso la grazia: essa deve essere data e accolta. Ciò suppone che noi siamo ministri della grazia, autorizzati e abilitati da Cristo. La tradizione della Chiesa chiama sacramento questo ministero ordinato, attraverso il quale gli inviati di Cristo compiono e danno per dono di Dio quello che da se stessi non possono né compiere né dare.[13] I sacerdoti devono dunque considerarsi come segni viventi e portatori della misericordia, che non offrono come propria, bensì come dono di Dio. Sono anzi servitori dell’amore di Dio per gli uomini, ministri della misericordia. La volontà di servizio s’inserisce nell’esercizio del ministero sacerdotale come elemento essenziale che, a sua volta, esige nel soggetto anche la rispettiva disposizione morale. Il presbitero rende presente agli uomini Gesù, che è il pastore venuto “non per essere servito, ma per servire”[14]. Il sacerdote serve in primo luogo Cristo, ma in un modo che passa necessariamente attraverso il servizio generoso alla Chiesa e alla sua missione. Si tratta dell’incorporazione del sacerdote al sacrificio in cui “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per Lei, per renderla santa”[15]. Il presbitero è chiamato ad essere “immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa”[16], facendo della sua intera vita un’oblazione a favore di essa. “Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore”[17].
“Egli ci ama ed ha versato il Suo sangue per lavare i nostri peccati: Pontifex qui dilexisti nos et lavasti nos a peccatis in sanguine tuo. Ha dato se stesso per noi: tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam. Cristo introduce nell’eterno santuario il sacrificio di se stesso, che è il prezzo della nostra redenzione. L’offerta, cioè la vittima, è inseparabile dal sacerdote”[18]. Sebbene soltanto Cristo sia simultaneamente Sacerdos et Hostia, il suo ministro, inserito nella dinamica missionaria della Chiesa, è sacramentalmente sacerdos, ma con un permanente richiamo a diventare egli pure hostia, ad avere in se stesso “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”[19]. Da questa inscindibile unità tra sacerdote e vittima[20], tra sacerdozio ed Eucaristia, dipende l’efficacia di qualsiasi azione di evangelizzazione. Dall’unità salda — nello Spirito Santo — tra Cristo e il Suo ministro, senza pretendere, da parte di quest’ultimo, di sostituirsi a Lui, bensì di appoggiarsi a Lui e di lasciarLo agire in sé e attraverso di sé, dipende anche oggi l’opera efficace della misericordia divina, contenuta nella Parola e nei Sacramenti. Anche a questa connessione del sacerdote con Gesù nell’opera ministeriale si estende la portata delle parole: “Io sono la vite… Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me”[21]. Il richiamo a diventare hostia assieme a Gesù sta anche alla base della coerenza dell’impegno celibatario con il ministero sacerdotale a favore della Chiesa.
- Pastori del popolo di Dio
“Esercitando la funzione di Cristo Capo e Pastore, per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità, e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo”[22]. L’indispensabile esercizio del munus regendi del presbitero, lontano da una concezione meramente sociologica di capacità organizzativa, scaturisce anche esso dal sacerdozio sacramentale: “In virtù del sacramento dell’Ordine, a immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote[23], siamo consacrati per predicare il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento”[24]. I sacerdoti, partecipando dell’autorità di Cristo, godono di un notevole ascendente nei confronti dei fedeli. Essi sanno però che la presenza di Cristo nel ministro “non deve essere intesa come se costui fosse premunito contro ogni debolezza umana, lo spirito di dominio, gli errori, persino il peccato”[25].
La parola e la guida dei ministri sono suscettibili di una maggiore o minore efficacia a seconda delle loro qualità, naturali o acquisite, d’intelligenza, di volontà, di carattere, di maturità. Questa consapevolezza, unita alla conoscenza delle radici sacramentali della funzione pastorale, li porta all’imitazione di Gesù Buon Pastore e fa della carità pastorale una virtù indispensabile per il fruttuoso svolgimento del ministero. “Lo scopo essenziale della loro azione di pastori e dell’autorità che viene loro conferita [è quello di] condurre al suo pieno sviluppo di vita spirituale ed ecclesiale la comunità loro affidata”[26]. Tuttavia “la dimensione comunitaria della cura pastorale (…) non può trascurare le necessità dei singoli fedeli (…). Si può dire che Gesù stesso, Buon Pastore, che “chiama le sue pecore una per una”[27] con voce da esse ben conosciuta, ha stabilito col suo esempio “il primo canone della pastorale individuale: la conoscenza e la relazione di amicizia con le persone”[28].
Nella Chiesa la visione comunitaria si deve armonizzare con quella personale; più ancora, nell’edificazione della Chiesa il pastore procede dalla dimensione personale a quella comunitaria. Nel rapporto con le singole persone e con la comunità, il sacerdote si prodiga per trattare tutti “eximia humanitate”,[29] non si pone mai al servizio di una ideologia o di una fazione umana[30] e tratta con gli uomini non “in base ai loro gusti, bensì alle esigenze della dottrina e della vita cristiana”[31].
- Il Signore è la nostra forza
Come usava ripetere il Beato Paolo VI, “siamo gli amici del crocifisso” e non possiamo immaginare che la nostra vita non sia segnata dalla croce. Non vi mancheranno, o figli, le prove e le difficoltà. Ricordate però che, se sarete fedeli al Signore, egli non vi abbandonerà mai. Vedrete con i vostri occhi che in Dio nulla va perduto. Lui stesso stasera si compromette con voi e darà efficacia al vostro ministero.
La Madonna, che nella nostra Chiesa diocesana volentieri invochiamo sotto il titolo del Conforto, sia la stella che vi guida nel cammino che iniziate, la madre provvida, fonte del coraggio. Con il nostro popolo, anche noi ripetiamo stasera, pieni di gratitudine “Ave spes nostra”.
[4] Cfr. Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei Presbiteri Tota Ecclesia, n. 7b-c: l.c., pp. 11-12
[5] Giovanni Paolo II, Catechesi nell’Udienza generale (5 maggio 1993): Insegnamenti XVI, 1 (1993), p. 1061
[7] Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo (16 marzo 1997), n. 5: AAS 89 (1997), p. 662.
[18] Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo (16 marzo 1997), n. 4: AAS 89 (1997), p. 661.