Intervento al Principato di Monaco sul Duomo di Arezzo

26-10-2012

1. La particolare valenza della chiesa cattedrale

            Ogni chiesa cattedrale è per eccellenza la chiesa del Vescovo; è il segno visibile dell’unità e dell’identità della Chiesa Diocesana.

            Nei secoli, con l’uso delle arti figurative, toccò alla cattedrale il ruo­lo di esprimere in immagini la simbologia che le Sa­cre Scritture adoperano per rendere il più possibile manifesto cosa sia la Chiesa. La forma che attraverso i tempi as­sume l’edificio sacro esprime le idee che la committenza intende comunicare, nella sua progressiva comprensione del mysterium Ecclesiae.

            Nel­l’ambito del tessuto urbanistico, diventa il monumentum che identifica la civiltà cristiana, adottando lo specifico ruo­lo del monere, cioè di passare, attraverso i linguaggi delle forme e dei colori, i contenuti della fede.

            Secondo l’insegnamento evangelico “con la sua morte e resurrezio­ne, Cristo è divenuto il tempio vero e perfetto della Nuova Allean­za”[1]. La chiesa di mura, destinata a contenere la dimensione sacramenta­le della presenza di Cristo nel mondo, tende ad assumere forme che sempre meglio ricordino il Cristo. L’edificio sacro si assimila assai presto alla santa croce. Con le prospettive degli interni, la cattedra­le riesce a esprimere il senso della trasfigurazione della luce, che connota il soprannaturale; più tardi, si afferma l’innalza­mento verticale della dimensione umana, attraverso una ripartizio­ne sempre più articolata delle forze e l’uso di arditissime architettu­re, fin quasi all’eliminazione della materialità, col prevalere dei vuo­ti sui pieni.

            In quanto la cattedrale è per antonomasia simbolo della Chiesa pel­legrina sulla terra e immagine della Chiesa già beata nel Cielo adem­pie, tra le case degli uomini, il ruolo della visibilità del divino nella sua incarnazione nella storia. È posta sul monte per coprire con le ali, come materna chioccia, i suoi nati. È al centro della civitas, per diventarne il punto di riferimento; è il baluardo presso le mura, torre mu­nita contro l’assalto del nemico. È l’edificio più alto per essere casa comune di tutti, visibile a tutti, ideale riferimento a ciascuno.

            È “l’ovile la cui porta unica e necessaria è Cristo”[2], laddove è un recinto architettonico, un “contenitore di popolo”, a differenza del tempio pagano.

            “È campo di Dio, dove cresce l’ulivo, la cui santa radice sono stati i Patriarchi”[3], così già l’antichità cristiana ama raccogliere la comunità dei fedeli sopra il sepolcro dei martiri e dei giusti delle ge­nerazioni precedenti; da questo concetto forse deriva la scelta di da­re splendore decorativo ai pavimenti, che raffigurano l’albero della vita, il paradisus, la bellezza della natura come un fertile campo, ri­goglioso di vita, dove la generazione presente si unisce a quella dei secoli, ricca di frutti e prospera di vegetazione.

            La nozione di “casa di Dio, nella quale abita la sua famiglia”[4], fa percepire dal popolo cristiano la cattedrale come luogo pri­vilegiato di assemblea e casa della famiglia di Dio, dove nessuno è estraneo o forestiero. Già in epoche remote assume il senso di luogo della vita del popolo cristiano, spazio deputato alla sua riunione. Per la naturale contaminatio dei concetti tra varie civiltà soprattutto del­l’area mediterranea, la cattedrale diventa per eccellenza “basilica’’, cioè casa del Signore: non già il basileus terreno, ma il “Signore del­la gloria”[5] al quale è dedicata ogni chiesa. In onore di Cri­sto gli antichi sogliono alzare l’arco trionfale, che lo celebra risorto, vincitore della morte; rimane per secoli elemento centrale delle suc­cessive cattedrali.

La casa del Signore manifesta anche “la sposa che Cristo ha amato”[6].

            Nessun decoro è mai eccessivo per abbellire la sposa: i cantieri del­le fabbriche delle nostre cattedrali sono diventati proverbiali per il loro protrarsi senza fine, alla ricerca del bello e del nuovo. Le immagini dell’Apocalisse si prestano particolarmente a fornire alla cattedrale elementi simbolici e splendenti, quale mistica sposa: la zona, che ne delimita come preziosa cintura il fianco, si abbellisce di volta in vol­ta di marmo policromo e di bassorilievi; talvolta di bronzi dorati e di smalti.

            Pietre dure e porfidi decorano gli esterni; dipinti e arazzi impreziosi­scono le navate. Soprattutto la maestria degli architetti si affianca, alla funzionalità e alla bellezza, l’allusione simbolica e il contributo ideale del monumento.

            La cattedrale è la chiesa del Vescovo, la chiesa dove si esprime com­piutamente il suo servizio; la chiesa dove egli ha la cattedra, il luogo dove per antonomasia esercita i tria munera docendi, gubernandi et sanctificandi, del suo Ministero nella Diocesi, la Chiesa particolare che gli è affidata.

            La cattedrale è il luogo del magistero, dove è chiesto al Vescovo di partecipare al popolo di Dio la dottrina apostolica. È il luogo dove il successore degli Apostoli è chiamato a spiegare le Scritture, la catte­dra dove insegnare il cammino, che a ogni cristiano è richiesto, per raggiungere la Gerusalemme del Cielo. È il luogo della parenesi, per­ché a nessuno manchi l’incitamento a seguire con fiducia la chiama­ta del Signore a sempre maggiore perfezione di vita. La sede è il se­gno della sicura speranza[7], il ministero con cui doma­re, di volta in volta, i mali del tempo, come spesso ricordano i leoni ammansiti, che talvolta ne adornano le forme.

            La simbologia della tradizione medievale induce a vedere nell’ambo­ne della Cattedrale il sepolcro di Cristo: è il luogo dove “l’Angelo della Chiesa”[8] mostra il sepolcro vuoto e annunzia che Cristo è risorto.

            L’altare della chiesa cattedrale, che è caput et mater omnium ecclesiarum, è, nella Diocesi il punto più alto della preghiera, da cui provie­ne e a cui fa capo tutta la liturgia cattolica, celebrata dalle comunità cristiane sparse nel territorio. Oltre che un luogo fisico è un luogo teologico: il segno di Cristo risorto e vivo, in mezzo al suo popolo. La chiesa cattedrale custodisce la pienezza dei segni della Nuova Al­leanza. È per eccellenza il luogo dove si manifesta la sacramentalità della Chiesa; è il luogo dei sette sacramenti. Dall’ascolto della Paro­la e dalla celebrazione dei segni si anima la carità, che distingue i di­scepoli di Cristo. Dalla celebrazione della Divina Liturgia sgorga, co­me da fonte viva, la santità cristiana, che pur manifestandosi, nel tem­po, attraverso la povertà dei segni, esprime la perenne presenza di Dio, nostro aiuto e nostro liberatore, guida sicura nel pellegrinaggio terreno per tutto il popolo che egli si è scelto come prodigioso segno di unità e di pace in mezzo al genere umano.

            Al successore degli Apostoli, principale liturgo nella sua Chiesa, è chiesto di celebrare i divini misteri che attualizzano nella categoria del memoriale l’opera Domini, e anticipano nel tempo, sub specie sa­cramenti, le meraviglie del Regno.

            La simbologia ricchissima dei Padri della Chiesa ci invita a scorgere, al di là delle apparenze, i molteplici significati del luogo dove si compie il “memoriale del Signore”. L’altare è la mensa sacra della cena di Cri­sto nel Cenacolo, dove il Signore celebra l’Eucaristia con i suoi disce­poli[9]. È la roccia del Calvario, ara del sacrificio re­dentore del Cristo, la “pietra scartata dai costruttori… divenuta testa­ta d’angolo”[10], su cui sono appoggiate, nel segno delle bian­che tovaglie di lino, le bende funebri del Signore, lasciate sul sepolcro alla Resurrezione. È il monte della Trasfigurazione, dove i discepoli possono percepire la voce del Padre e recuperare la dimensione tean­drica della Chiesa. È il monte dell’Ascensione, al di là della valle di Josafat, dove raccogliere il mandato per evangelizzare le genti.

            La chiesa cattedrale è il segno dell’unità per tutta la Chiesa particola­re, la santa qahal, l’assemblea adunata in cui il popolo di Dio si risco­pre come popolo e si aggrega in unità. Il governo nella Chiesa non ha altro scopo di comporre nell’unità la molteplicità dei doni che i Christifideles riconoscono d’aver ricevuto da Dio per l’utilità comune. Nell’espressione figurativa dei secoli passati la chiesa cattedrale è un’ideale prosecuzione del cenacolo di Gerusalemme, dove si cele­bra il ruolo di Cristo capo, attraverso la lavanda dei piedi, la catego­ria del servizio che determina la più radicale alterità alla logica del mondo, nelle parole stesse del Maestro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercita­no su di esse il potere. Tra di voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra di voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”[11]. L’unità è frutto d’amore: al successore degli Apostoli, cui è affidata la cattedra, è chiesto di pa­scere il gregge di Cristo, attraverso un servizio che nasce dall’amore ed è sorretto dall’amore: cathedra crucis.

 

2. Breve storia della Cattedrale dei Santi Pietro e Donato in Arezzo
«Ob reverentiam  Dei et Beatae Virginis ac Beati Donati patroni nostri»

            Il 10 gennaio del 1276 papa Gregorio X, di ritorno dal Concilio di Lione, spirava ad Arezzo, lasciando per volontà testamentaria una somma di 30.000 fiorini d’oro, grazie alla quale il vescovo e signore della città, Guglielmino degli Ubertini, dette avvio ai lavori per l’erezione dell’odierna Cattedrale, principiata nel 1278 sul luogo dove sorgeva una precedente chiesa, di modeste dimensioni, dedicata a San Pietro; il Duomo è infatti intitolato congiuntamente ai santi Pietro Apostolo e Donato Martire, secondo vescovo e patrono della città.

            La fabbrica della Cattedrale si sarebbe conclusa, tra crisi politiche e carenze di fondi, soltanto nel 1511; la facciata, in stile neogotico, fu realizzata tra il 1900 e il 1914, mentre il campanile, eretto tra il 1857 e il 1860, venne sormontato dalla caratteristica  guglia solo nel 1932.

            La navata centrale è dominata dall’Arca di san Donato, in marmo «così finemente lavorato da sembrare trina e cesello»[12], e arricchita da inserti di pasta vitrea e dorature; preziosa scultura gotica realizzata da maestranze aretine e fiorentine (1364-1375), custodisce al proprio interno le reliquie di Donato e di altri martiri aretini.

            Splendido esempio di arte provenzale del Rinascimento, sono le grandi vetrate istoriate, a partire dal 1519 dal maestro francese Guillame de Marcillat.

            Il secolare cantiere della Cattedrale aretina abbraccia una pluralità di stili e conserva al proprio interno una mirabile concentrazione di opere d’arte. Il tempio, a tre navate sormontate da volte a crociera ribassata, è provvisto di un elegante abside poligonale. L’imponente slancio verticale, accentuato dai pilastri a fascio polistili, ne fa un prezioso esempio di architettura gotica vicina a modelli d’Oltralpe, soprattutto anglosassoni e germanici.

Questa cattedrale evoca nelle sue forme i grandi templi del Nord Europa, con cui nel nostro Medioevo Arezzo ghibellina fu in continuo e proficuo contatto di cultura e d’arte. Gli esempi ai quali si ispira l’edificio, in particolare nell’alzato delle navate e della tribuna absidale, trova i suoi riferimenti ideali nel venerato luogo di pellegrinaggi che fu Canterbury, non già il pur bellissimo gotico toscano dei nostri vicini. Come nella cattedrale di San Tommaso Becket, anche da noi la successione interna dei luoghi, parte dall’arca di San Donato, di fronte alla quale si ergono la cattedra, l’altare, l’ambone, il coro dei presbiteri e le grandi navate dove il popolo di Dio ha parte ai sacri misteri.

Dall’abside ebbe inizio la costruzione dell’edificio che fu concepito fin dall’origine con la duplice finalità di nuova e degna sede episcopale urbana e di reliquiario monumentale per i resti mortali del secondo Vescovo aretino, Donato, veneratissimo in tutto il mondo cattolico, e le cui spoglie per ordine pontificio erano state trasferite dal colle del Pionta in Città fin dal 1203.

L’abside e le testate delle navate minori furono da subito pensate per permettere al popolo dei fedeli devoti di pellegrinare processionalmente attorno all’altare monumentale in cui le reliquie del santo sono custodite; come in tutte le altre chiese funzionate da un numeroso clero, la parte della navata centrale antistante l’abside fu destinata a ospitare il presbiterio e gli stalli del coro canonicale. Una disposizione molto simile si ritrova nella Cattedrale di Canterbury, dal 1170 meta del pellegrinaggio di dimensioni europee alla tomba dell’arcivescovo San Tommaso Becket, martire per la libertà della Chiesa.

Quando il vescovo fondatore, Guglielmo Umbertini, partì per Campaldino nel giugno 1289, la fabbrica era edificata fino alla seconda campata dall’abside e, benché incompleta, la nuova Cattedrale nei suoi spazi poteva già adempiere in modo sufficiente al suo duplice scopo.

Proseguita dal vescovo Tarlati fino alla terza campata e poi completata nell’alzato fra il XV e il XVI secolo, l’edificio mantenne però una mirabile unità di stile architettonico. L’uso e l’arredo degli spazi interni, invece, subirono notevoli cambiamenti, indotti dalla nuova sensibilità della Riforma cattolica promossa dal Concilio tridentino e applicata in Arezzo dal vescovo Pietro Usimbardi: come in tante altre chiese cattedrali e collegiate, gli stalli lignei del coro furono spostati dietro l’abside, per favorire la visibilità dell’altare e furono così coperti alla vista gli affreschi che abbellivano la parte inferiore dell’abside e fu  interrotta la secolare tradizione del pellegrinaggio attorno all’Arca di San Donato, che nel tratto centrale si svolgeva in ginocchio, all’interno stesso del monumento marmoreo che racchiude le reliquie del Patrono e ne illustra la prodigiosa vita.

Lo spazio della prima campata davanti all’abside tornò però ben presto alla sua funzione di presbiterio, con la posa in opera della grande pedana lignea e delle sedute destinate ai chierici.

Alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, ancora una trasformazione, indotta questa volta dalla Riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II: la grande pedana fu demolita e la tribuna absidale fu liberata dal coro cinquecentesco, tornando a svettare in tutta la sua ampiezza architettonica originaria. La situazione rimase tale per venti anni, nei quali la Cattedrale aretina tornò quasi alla sua primigenia fisionomia.

Nonostante che l’attuale Calendario romano generale non riporti più la memoria di San Donato vescovo, la venerazione e l’interesse nei suoi confronti in questi ultimi anni non sono scemati, ma anzi accresciuti, ad opera degli aretini e di moltissime delle comunità che, nelle varie parti d’Europa, lo venerano come Patrono; il pellegrinaggio a san Donato non è quindi una eredità che appartiene al passato, ma è ben vivo anche ai nostri giorni.

 

3. L‘intervento di adeguamento liturgico del presbiterio

Tra i doni che il Papa ci ha portato, con la sua visita alla diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro dello scorso 13 maggio, vi è anche l’opportunità che abbiamo colto per tornare a studiare la teologia della nostra chiesa madre.

L’adeguamento del presbiterio della Cattedrale di Arezzo, necessario alla luce della sensibilità liturgica promossa dalla Chiesa, è quindi frutto di un attento studio, teso a recuperare l’originaria concezione dell’edificio, anche attraverso la messa in opera dei nuovi poli liturgici: l’altare, l’ambone e la cattedra, la cui nuova collocazione risponde in realtà ad una criteriologia ben consolidata, come troviamo nel già citato esempio della Cattedrale di Canterbury.

L’intervento di adeguamento liturgico realizzato nell’aprile del 2012 nasce pertanto per rendere fruibile dal popolo cristiano del secondo millennio secondo l’ispirazione originaria e nelle forme più alte che l’arte contemporanea sa mettere a disposizione per la celebrazione dei santi misteri e la devozione nei confronti dei Santi: una contemporanea iconografia al servizio della antica iconologia trasmessa dalla Tradizione.

Il Maestro Giuliano Vangi ha accolto il nostro invito ad arricchire con la sua arte il presbiterio della Cattedrale di Arezzo, ripristinato nelle forme antiche in cui fu concepito e usato per secoli.

Alla qualità altissima del suo intervento, lo scultore ha aggiunto una straordinaria sensibilità umana e una delicatezza rispettosa dei Grandi, che fa onore a lui e gioia a chi vede la sua più recente opera nella Basilica aretina dei Santi Pietro e Donato. Egli, accettando la commessa, ha posto come condizione di poter realizzare i nuovi manufatti – l’altare, l’ambone e la sede – inserendo nella fabbrica monumentale il nuovo senza contrapporsi al vecchio, senza interferire con esso né stravolgerlo.

Una lezione di saggezza che è ben possibile riconoscere, vedendo come le nuove opere d’arte si accostino dolcemente all’Arca di San Donato, nella quale il lapicida medioevale ha condensato parte significativa della nostra identità. Il linguaggio usato dal Maestro Vangi è quello che gli appartiene, frutto ed espressione della cultura del nostro tempo. Nella nostra grande aula ecclesiale, molte volte nella storia, generazioni che si susseguirono hanno lasciato la loro testimonianza di fede e di cultura.

            Il ricorso al linguaggio del nostro tempo, mediato attraverso l’arte del Vangi, è un omaggio alla dignità del grande monumento, dove sarebbe stato del tutto improprio riproporre forme e linguaggi oggi desueti.

Le norme liturgiche della Chiesa ci hanno convinto a ripristinare i luoghi del culto secondo canoni attentamente meditati prima di essere messi in atto, con la consulenza sapiente e preziosa dei maestri di liturgia, degli esperti d’arte, degli Organi di Tutela della Repubblica Italiana, competenti per materia, e dei consiglieri previsti dal Diritto Canonico.

L’adeguamento liturgico è stato realizzato con la consulenza dell’architetto fiorentino Gianclaudio Papasogli Tacca ed ha interessato la parte finale della Cattedrale dedicata al presbiterio, creando più spazio e una più ampia visione prospettica all’“Arca di San Donato”. La preziosa eredità Medievale, interessata da un restauro, possiamo adesso ammirarla nel suo pristino splendore, assieme alla catechesi che il monumento ci ha tramandato sulla teologia della Chiesa aretina.

            L’altare è tornato nel luogo antico, testimoniato da Marcillat, che con la scelta dei colori delle vetrate, ci mostra il “luogo bianco e splendente” dove  celebrare i Sacri Misteri.

Il coro e le cappelline laterali sono state interessate solo per ciò che concerne la sostituzione della pavimentazione.

È stato ampliato il presbiterio, in quanto quest’ultimo, dopo gli adattamenti tridentini, aveva una superficie assai modesta e di dimensioni non sufficienti per le diverse celebrazioni liturgiche. È stato dunque ampliato verso la navata centrale sviluppandosi allo stesso livello e in continuità con la porzione già esistente e collegato, sui tre lati verso le navate, tramite tre gradini continui realizzati in massello di marmo bianco di Carrara, lo stesso materiale impiegato per la pavimentazione dell’intero presbiterio.

La pavimentazione del presbiterio è omogenea per materiali e disegni con l’intera cattedrale, con l’intento di creare un piano unitario che proprio in virtù di una sua  presenza nobile ma sobria, emanasse al tempo stesso una luce simbolica per mettere in risalto l’elemento scultoreo che costituisce l’Altare e sottolineare la presenza della nuova Sede (Cattedra) posta su una porzione sopraelevata rispetto al livello del piano del presbiterio.

Sul piano di marmo bianco del presbiterio sono state previste unicamente due fasce di pietra gialla di Gerusalemme per esaltare e rilegare il coro e l’Arca con la parte officiante del presbiterio. La prima fascia si sviluppa intorno all’Altare formando un riquadro per evidenziare ed accentuare la presenza ed il valore dello stesso; la seconda fascia si sviluppa parallelamente al perimetro del coro e del presbiterio inglobando l’Arca anche per richiamare simbolicamente l’antico percorso dei pellegrini al trofeo di San Donato.

Nella riconfigurazione dell’area celebrativa l’intervento ha portato alla sostituzione di parte della pavimentazione diversa, sia nelle dimensioni sia nel materiale, da quella esistente in tutta la cattedrale. Si è provveduto a sostituire questa pavimentazione con  lastre quadrate di marmo bianco di Carrara alternate con lastre di marmo bardiglio poste a scacchiera come la pavimentazione esistente nella parte delle navate della Cattedrale.

Per la nuova pavimentazione sono state impiegate le stesse cave di Carrara che fornirono il marmo al vescovo Agostino Albergotti (1802-1825), che a sue spese volle – nel primo ventennio dell’Ottocento – rinnovare il rivestimento dell’intera Cattedrale.

Il disegno riprodotto è quello recuperato dall’antica pianta cinquecentesca conservata nell’archivio capitolare della cattedrale. Parimenti attorno all’Arca di San Donato e sui gradini delle cappelle laterali sono stati sostituiti i masselli di basaltino, collocati nel 1935, con gradini lavorati in massello bianco di Carrara.

In quest’occasione, sono ritornate nella collocazione originaria tre delle sei statuette trafugate nel secolo scorso. Le preziose opere furono recuperate grazie all’efficace lavoro dei Carabinieri nel 1960 e custodite fino ad oggi nei depositi del Museo diocesano.

Il Santo Padre Benedetto XVI è stato il primo pellegrino a venerare le reliquie di san Donato secondo il rito per il quale san Pier Damiani ci ha lasciato due splendidi inni. Il Papa si è detto più volte entusiasta dell’alto livello di cultura con cui è stato realizzato l’intervento e del contributo teologico patristico con cui è stata scelta la simbologia del nuovo assetto e dei sui monumenti.

L’Altare è costituito da una scultura in lega di bronzo di una colorazione lucente rappresentante il Cristo “Angelo della Pace” su cui posa la Mensa quadrata in massello di marmo delle dimensioni di mt.1,50 collocata in posizione baricentrica nell’area del nuovo ampliamento, esattamente nel luogo in cui nelle ore antimeridiane le vetrate del Marcillat fanno affluire un fascio di luce bianca intensa.

L’Ambone è realizzato con un elemento scultoreo aperto che appoggia su soli due punti e collocato nella porzione destra del presbiterio e completamente integrato alla pavimentazione in modo tale da apparire come se si innalzasse dal piano del presbiterio stesso.

La Sede (Cattedra) è stata posta sull’asse del presbiterio in posizione arretrata rispetto all’Altare ed è posta su un piano anch’esso di marmo bianco di Carrara, sopraelevato rispetto al piano del presbiterio.

 Tutti i nuovi elementi sono stati pensati per esaltare l’Arca di San Donato, non limitandone la visuale, ma integrandola alla parte officiante in un cono visuale unico.

 

4. Le opere del maestro Giuliano Vangi

L’altare, nella dottrina della Chiesa, è “figura del Cristo “ara, sacerdote e vittima del proprio sacrificio”[13], e memoria fisica della mensa del Cenacolo. Il nuovo altare del Duomo di Arezzo, con le sue dimensioni contenute – alla maniera di quello di Notre Dame de Paris – evoca il segno dell’ara sacrificale; con le sue forme architettoniche, ricorda la mensa dell’Ultima Cena. Con la sua centralità, circonfuso di luce, invita a recuperare il senso soprannaturale delle cose, ci chiama a convertirci ogni giorno sempre più a Cristo Gesù: “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due popoli un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo”.[14]

Come segno che il Diluvio universale era finito, una colomba con un ramoscello d’ulivo nel becco annunziò l’inizio dei tempi nuovi. I Santi Padri lessero in quel segno, l’ombra della realtà futura: Gesù è “l’angelo della pace”, che con il sacrificio della croce, ci ha portato la salvezza, donando se stesso a tutti noi, nostro cibo e nostra bevanda nella divina Eucaristia, che è il centro della nostra fede, “culmen et fons ”[15] della vita della Chiesa, come ci insegna il Concilio Vaticano II. Nelle forme del nuovo altare l’angelo della pace, con il ramo d’ulivo in mano, sostiene la pietra del sepolcro finalmente ribaltata, a segno della vittoria di Cristo sulla morte, impatta vorticosamente sull’assemblea, alla maniera della “volata”, cara a tutto il popolo della  Valdichiana e della vicina Umbria. La mensa a cui tutti possono accedere dai quattro poli, come dice la Scrittura[16], arreca il “panis angelorum, factus cibus viatorum”[17] della nostra più bella tradizione teologica. Presso la mensa, con i sette candelabri dell’Apocalisse[18], vi è la croce gloriosa di Cristo, albero vivo dai frutti incalcolabili a mente d’uomo. I sette lumi attorno alla croce rammentano anche le sette zone in cui è ripartita la nostra vasta diocesi che, con la loro fede, portano l’unica luce di Cristo a tutti i viandanti del tempo.

Il pane, frutto di molti chicchi di grano, il vino dei molti acini pressati, in virtù della Parola, diventa sacramento, come insegna Sant’Agostino: “Accedit verbum ad elementum et fit sacramentum”[19]. La Parola è Gesù: la sua proclamazione, in virtù della croce, convoca il popolo di Dio e lo fa diventare Chiesa del Signore, se saremo capaci di meditare e interiorizzare, perché la vita corrisponda al Vangelo, come il carisma dei monaci di Camaldoli seguita a ripeterci, di generazione in generazione, da mille anni.

Il Duomo è la casa dell’ascolto. Il luogo che i padri predisposero per noi, perché ciascuno vi ascolti la voce di Dio, che risuona nella Bibbia e nei cuori attraverso il ministero della Parola. La tradizione, soprattutto la nostra celebrata dai  Grandi del Rinascimento che echeggiarono felicemente  l’insegnamento dei Padri della Chiesa, vuole che il luogo dove si proclama la Parola, l’ambone, sia il sepolcro vuoto di Cristo. Ci insegna infatti Paolo che se egli non fosse resuscitato, vana sarebbe la nostra fede[20].  E il nuovo ambone è esattamente il monumento al sepolcro vuoto, ma anche al vuoto esistenziale del nostro tempo, allo smarrimento, alla mancanza di orientamenti certi su cui incombe la Parola, esorcizzando il male e la mancanza di senso. Di fronte al “sepolcro vuoto”, l’Angelo di Pasqua, che nella posizione rituale ebraica dello Shalom annunzia la pace, è corroborato dalla memoria della gloriosa passione del Cristo, a cui è strettamente legato. Poi l’invenzione straordinaria della figura del Cristo che, non ancora risvegliato ed ancora abbandonato nel sonno, già ascende al cielo. Un leggero stiacciato rivela la figura, accarezzata dalla luce radente, e ci introduce al mistero.

L’Angelo che accolse le donne al sepolcro ci ripete le parole della salvezza: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui, è risorto”. E l’assemblea dei fedeli, insieme alle Marie in quel “primo giorno della settimana”, assiste al miracolo: il luogo della morte, vuoto, diviene la fonte stessa della vita eterna, la terra nuda di un cimitero, nel giorno della resurrezione, diviene giardino fiorito.

Dall’altra parte l’albero della vita, che ricordando il paradiso perduto in Eden, lo ricollega con il paradiso riconquistato dal Cristo, e reso accessibile attraverso i Sacri Misteri della Chiesa, si manifesta attraverso la divina liturgia, riassunta nel cero pasquale. È la parte più poetica dell’intera composizione, tutta incentrata sullo stretto rapporto simbolico tra il Risorto e l’Angelo. Cristo è risorto, del suo corpo resta solo la memoria, quasi l’impronta lasciata sul lenzuolo. Il lino funebre diviene la veste dell’Angelo, i piedi si lambiscono, ma  Egli è già alla destra del Padre e, allo stesso tempo, tra noi. L’Angelo sembra ripeterci le parole del Signore “Vado e vengo a voi”, e proprio il duplice e contrapposto concetto dell’andare e del venire ci rivela il mistero cristologico della morte, resurrezione e ascensione di Gesù, non legato alle leggi della corporeità, dello spazio e del tempo, e che, tuttavia sono allora e per sempre, nello spazio e nel tempo.

Il segno della cattedrale che questo tempio richiama sull’alto del colle che sorge al centro della spianata dove è edificata la città di Arezzo, rappresenta plasticamente il mistero della salvezza: dall’Annunciazione alla Coronazione nel Regno, dove sono patriarchi e profeti testimoni del Cristo, assieme ai Santi e ai morti sepolti sotto il paradisus anche del nostro antico pavimento. In questo luogo si impara a benedire, a chiedere perdono, a confessare la propria fede, a  fare l’Eucaristia e ricevere i santi doni dello Spirito.

È la casa dell’Amen. Il popolo qui si riunisce per rinnovare il patto con il Signore.

È la casa della Chiesa. La presenza anche fisica della Chiesa dentro la città dell’uomo  ha una capacità evocativa profetica. È come offrire a tutti il servizio dei cristiani, per il bene comune.

            Il presbiterio del duomo di Arezzo si rianima ad opera delle figure di Giuliano Vangi, come probabilmente era stato in antico. Le sculture occupano lo spazio in cui Dio e gli uomini si incontrano e si ascoltano, splendono alla luce nel culto, assumendo una dimensione metastorica, che ci aiuta a recuperare il senso dell’eterno e la soprannaturalità della liturgia.

Al Maestro Vangi, che ha voluto offrire agli aretini e ai visitatori che arriveranno in città lo splendore della sua arte, corroborata dalla fede e illuminata dalla cultura, va la nostra viva e cordiale gratitudine.

 

Principato di Monaco, Hotel Meridien, Salle du Canton, 26 ottobre 2012. Intervento pronunciato in seno alle manifestazioni per il mese della lingua e della cultura italiana

 



[1] Pontificale Romano, Rito di Dedicazione di una Chiesa, n. 27
[2] Lumen Gentium 6
[3] Ibidem
[4] Ibi­dem
[5] Sal 23,7
[6] Lumen Gentium 6
[7] Cfr. II Cor 1,7
[8] Cfr. Apoc 2,1
[9] Cfr. Mt 26,20 sgg.
[10] Sal 118,22
[11] Mc 10,42 sgg.
[12] A. Andanti
[13]  Ebr  9,11-14
[14]  Ef 2,14
[15]  Cfr Conc. Ecumenico Vat. II, Sacrosantum Concilium, 10
[16]  Cfr. Is 2,2-5
[17]  S.Tommaso d’Aquino, Inno Lauda Sion Salvatorem, 1264
[18]  Cfr. Apoc 1, 12-13
[19]  S.Agostino, In Iohannis Evangelium, 80,3
[20]  Cfr.1Cor 15,14