Giubileo presbiterale dell’Arcivescovo Fontana

Omelia dell’Arcivescovo in occasione del suo 50° anniversario di Ordinazione presbiterale
02-07-2022
  1. Il libro dei ricordi e la gratitudine

Il Signore davvero mi ha voluto bene. Grazie Signore!

Sono passato attraverso l’acqua e poi il fuoco. Tante volte ho fatto esperienza che “Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore[1].

Arrivato al Giubileo, è giusto dire grazie alla Chiesa che mi ha custodito, senza togliermi le prove che la vita pone a ciascuno. Grazie alla Chiesa pisana che mi ha generato non solo alla fede, ma anche al sacerdozio. Fu il mio Vescovo Ugo il primo a fare il discernimento sulla mia vocazione, di cui avevo avuto consapevolezza pregando con la mia gente in Piazza del Duomo, per prepararci all’incontro con Paolo VI.

Ho avuto tante prove che mi scorrono nella memoria, accanto al ricordo che mai il Signore mi ha abbandonato.

Il Seminario di Pisa, il Capranica a Roma con la Gregoriana, la parrocchia romana di Tor di Quinto, dove imparai i rudimenti della pastorale, facendo comunità assieme a un indimenticabile gruppo di allora giovani amici: la comunità giovanile del Preziosissimo Sangue. Bellissimo insegnare, ma anche dure esperienze e quando pareva che mi cascasse tutto addosso, arrivò la chiamata del Sostituto Benelli per passare al servizio della Santa Sede, incontrando tanti uomini che mi hanno fatto amare Dio e la sua Chiesa.

Venivo dall’Azione Cattolica, ma il Vescovo mi chiede di fare l’Assistente scout: finché potei, provai a farlo anche a Jakarta, senza smettere mai di fare catechesi. Il mio primo Nunzio Vincenzo Farano mi prese per mano, anche quando, per undici mesi da incaricato d’affari, mi fecero reggere la Nunziatura in Indonesia, in mezzo alla tormenta della incipiente islamizzazione in quel bellissimo e amato paese.

Accanto ai poveri sempre: ai giovani rifugiati dal Vietnam che arrivavano a remi traversando il mar della Cina; alla tragedia di Timor Orientale dove in quegli anni si moriva materialmente di fame, malgrado la retorica portoghese. Rammento volentieri anche la bellezza di rappresentare, giovanissimo, la Santa Sede, in mezzo a gente semplice e piena di fede, che mi fece doni preziosissimi: la loro lingua, la fede orientale, il dialogo come strumento di evangelizzazione.

Prima di andare a Jakarta, allora con ventitré ore di volo – un altro mondo –, avevo incontrato don Achille Silvestrini, che fu mio relatore di Tesi, e che poi dall’Indonesia mi fece ritornare in Segreteria di Stato. Geniale, propositivo, molto esigente, mi insegnò a lavorare, passandomi quel metodo che rischia di tormentare anche i miei collaboratori di oggi.

Al successivo cambiamento arrivò in Vaticano il Nunzio Angelo Sodano, che per sette anni mi volle accanto a sé, facendomi da padre e da maestro. Mi disse un giorno, ormai anch’egli in pensione: “potrai testimoniare che ti ho stimato e ti ho voluto bene, ma non ho mai usato il potere che la Chiesa mi aveva dato per farti dei favori”. Ricordo ancora quando, iniziato il suo servizio di Segretario di Stato, nella Sala dei Concordati del Palazzo Apostolico con il soffitto affrescato delle api dei Barberini, al terzo saluto di convenienza che gli veniva rivolto, interruppe la riunione dicendo “impariamo dalle api: lavoriamo senza perdere tempo”.

Poi, la mia amata Chiesa spoletana nursina. Un terremoto che devastò l’Umbria intera. Alcuni preti bravissimi che mi insegnarono che l’utopia del Vaticano II sulla Chiesa può diventare realtà e che i cambiamenti sono possibili. Mi sia concesso quest’oggi di ricordare Don Giampiero Ceccarelli, capace sempre di straordinaria aderenza alla realtà.

Sto arrivando al capolinea. Papa Francesco ha accettato le mie dimissioni e cerco di passare le fatiche e le gioie di Vescovo aretino al mio successore, che non so ancora chi sia.

 

  1. Il tesoro di casa

Sono prossimo a lasciare la guida di questa bellissima Chiesa in Terra d’Arezzo, diventata enorme, la dodicesima in Italia per territorio, con un sacco di esperienze preziose. Puntare sull’“ecclesiologia di comunione” anziché sulla struttura istituzionale è stato più facile per me che venivo dal Vaticano. Incontrare e dialogare con il popolo e con i preti è quasi sempre possibile.

Ho sperimentato che fare il Vescovo, secondo la Prima Petri, è come fare il muratore che, se vuole costruire il muro di casa, deve smussare le asperità e cercare che una pietra stia accanto all’altra, con il cemento della fede, la forza della carità.

Arrivato al ventisettesimo anno di Episcopato, so bene che il Vescovo può mancare di tutto, ma non può mai mancare di speranza. La Chiesa è del Signore e noi siamo piccoli “servitorelli” che, anche quando ci mettiamo molto impegno, siamo sempre a rischio di essere insufficienti. La Chiesa aretina, che conosco attraverso due Visite Pastorali e un Sinodo, fidatevi, è bellissima. Ha solo bisogno di non avere paura del nuovo.

So bene che, tra le tentazioni più ricorrenti, vi è quella delle “ciabatte vecchie” che sono sì più comode nell’immediato, ma non servono per fare quella lunga strada che da Babele conduce alla Gerusalemme del Cielo.

Sull’Arca di San Donato troneggia la storia. Nel presbiterio del Vangi c’è l’eco dei Padri della Chiesa riconosciuto da Benedetto XVI, ma soprattutto c’è l’Angelo che annunzia la Resurrezione, dopo che la Parola di Dio sconfigge il vuoto del Sepolcro, dove fu deposto Gesù, ma anche quello della cultura poco esistenziale dell’Occidente di oggi. Il tema, alla maniera pierfrancescana, appartiene a ogni generazione che sia disposta a credere che l’albero della mela dell’Eden può tornare verde attraverso la Liturgia della Chiesa, che sorregge il tempo con il cero pasquale.

Sono stato Vescovo in Umbria e, per tredici anni, pastore di questa Chiesa aretina. L’altare, che ha le misure di quello di Callisto II nella Basilica Vaticana dove fui ordinato, è la pietra rovesciata del Sepolcro, a condizione che si raccolga il Cristo della “volata” di Pasqua, che dalla valle centrale umbra fino a tutta la Chiana sa benissimo correre in avanti, con in mano un cespuglio d’olivo, che è il futuro e la speranza.

 

  1. Avanti con gioia

A giorni deporrò la sedia curule, il faldistorio del Vescovo chiamato a “reggere e governare”[2] la sua Chiesa.

Mi restano tre funzioni fondamentali, per chi si mette da parte: potrò dedicare a tempo pieno il mio tempo alla preghiera per questa amata Chiesa, in attesa – io spero –, una volta accolto tra i salvati, di poter intercedere per quanti ho incontrato e servito.

Potrò da ultimo riallacciare umilmente le relazioni, in particolare quelle troppo bruscamente interrotte per mia colpa o per le forzature del tempo, rimanendo in un angolino assieme ad alcuni preti vecchi come me, pronto ad aiutare chi ne avesse bisogno.

Spenderò infine il tempo che mi resta per seminare dolcezza, dare coraggio e far comprendere a tutti, specialmente a chi mi fu più vicino, che il Signore non abbandona mai ed è capace di “scrivere dritto, anche sulle righe storte[3].

[1] Is 43, 2-3

[2] Cfr. Pontificale Romano, Ordinazione del Vescovo, Consegna del pastorale

[3] Jacques Bossuet, Aforismi