- Il primato della formazione: la vita interiore alla scuola di Sant’Agostino
Il fascino di liberare la gente, dando a ciascuno la capacità di volare alto con una vita personale consapevole, fa diventare la fede la via del riscatto dalle miserie del tempo.
Nell’Italia dei liberi Comuni, un gruppo di preti alla ricerca del senso della loro dimensione sacerdotale riscoprì l’incanto della predicazione di Agostino, Vescovo d’Ippona. Provarono a mettere insieme la contemplazione nell’eremo e la formazione in mezzo al popolo. Si aggregarono tra di loro perché la rivisitazione di Sant’Agostino porta con sé l’ecclesiologia di comunione. Senza comunità non si progredisce. Sarebbe bello che in questo tempo di pandemia la nostra gente si rendesse conto che la Chiesa è popolo di Dio, capace di mettere insieme la dimensione personale e quella comunitaria: due risorse che si richiamano vicendevolmente e assicurano vitalità alla Chiesa.
Quei preti agostiniani in Terra d’Umbria, vent’anni dopo la morte di San Francesco che aveva riscoperto la fraternità come carisma, si danno un impegno reciproco che diventa una regola. Una settimana nel rigore dell’eremo a pane e acqua e tre settimane predicando al popolo: “contemplata aliis tradere”[1].
In Terra di Cascia, nell’estremo sud est dell’Umbria, alle pendici dei Monti Sibillini ci sono ancora diversi siti di rifugio, che furono il luogo dello studio e della contemplazione di quei preti agostiniani. Le piccole comunità dei villaggi intorno furono in grado di godere dei frutti spirituali loro offerti durante il Ministero.
In quegli anni, in Umbria, il linguaggio è ricco di simboli che hanno la capacità di parlare ai semplici. Gli antichi biografi di Santa Rita, tutti concordi, annotano che fin dalla tenera giovinezza alla Margherita Lotti era stato insegnato nella predicazione a salire in alto. Ancor oggi si chiama “lo Scoglio” il luogo della contemplazione, ma anche l’alternativa alle misere gole dei pecorai. Il messaggio è chiaro: la preghiera costruisce la vita interiore. Se hai il coraggio, con fatica verrai fuori dall’oscura vita quotidiana: “Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse”[2].
Il perdono: una storia d’amore e di perdono
La Margherita Lotti – Rita ne è il diminutivo – ebbe la vicenda d’essere fisicamente molto bella e, giusto perché figlia del notaio, capace di scrivere, leggere e capire. Ai suoi 18 anni, Paolo Mancini è un giovane cavaliere. Una storia di amore forte e significativo, dove la dolcezza femminile e il vigore di un giovane piccolo capo di una fazione politica del luogo celebrano un matrimonio nella chiesa di San Montano a Roccaporena e nascono due ragazzi, Giangiacomo e Paulo. Parrebbe una storia qualunque, felice del poco e segnata dall’amore, che è una linea della spiritualità della vita interiore della discepola casciana di Sant’Agostino.
Un giorno terribile chiamano Rita al bivio fuori del paese, dove Paolo è stato ammazzato e solo il suo cavallo non lo ha abbandonato. Dolore grande per Rita, che chiede a Dio di preservare i figli dallo spirito di vendetta. Perdona gli assassini del marito e con ciò stesso si tira addosso l’odio dei parenti di lui. Tutti battezzati, ma il sangue grida sangue e Rita, che si oppone per amor di Gesù, inizia il suo calvario di incomprensione e alternativa alla logica del mondo.
La giovane sposa, perduti il marito per altrui violenza e i figli a causa di una delle tante epidemie di quel tempo, si dedica tutta al Signore. Nel monastero di Santa Maria Maddalena a Cascia, due sue cognate già monache non le perdonano di aver fermato la vendetta contro Paolo e cercano di renderle impossibile la vita in convento, ma Rita è forte e non si perde d’animo.
Erano tempi vivaci, dai grandi contrasti, e, come scrisse secoli dopo Ratzinger, la fede diventa una tentazione forte. Durante la Settimana Santa, dopo una predica a Cascia del francescano Giacomo della Marca – poi santo –, nella chiesa di San Francesco, Rita si propone di radicalizzare la sua adesione al Signore. Perfino i pittori del tempo rammentano questo episodio: Rita, meditando di fronte a un’immagine del Crocifisso nell’orto del monastero, fa un’operazione interiore di altissima valenza, che vorrei passasse anche ai nostri tempi. Si rende conto d’un gran dolore che ha sulla fronte: molto probabilmente è malata di cancro. Dice al Cristo: “prestami una spina della tua corona”[3], cioè esorcizza il male fisico dando anche ad esso un significato, cioè dominandolo. Ecco ciò che manca alla passione di Cristo[4].
Giorno dopo giorno, Rita diventa un punto di riferimento per gli altri: prima per le monache del monastero, poi per i villaggi che ne fanno corona. Con linguaggio simbolico dei tempi, il biografo antico narra che alla morte di Rita le campane di tutto il Casciano, mosse dagli angeli, suonarono a festa, cioè il popolo riconobbe il segno di Dio.
- In via, in patria
Santa Rita ci insegna che la vita è un percorso, dove, migliorando se stessi, si cammina in avanti verso il paradiso. “La Chiesa conosce due vite che le sono state divinamente predicate e affidate: una è nella fede, l’altra nella visione; una nel tempo del pellegrinaggio, l’altra nell’eternità della dimora; una nella fatica, l’altra nel riposo; una lungo la via, l’altra nella patria; una nell’attività, l’altra nel premio della contemplazione”[5].
Il nostro tempo così attento all’economia ci ha fatto confluire in questo antico chiostro dei monaci cassinesi, per tornare ad essere consapevoli che i soldi sono necessari per vivere, ma se diventano un impero ci fanno schiavi di un mondo improbabile. È bastato un “piccolo esserino” a forma di “corona” a mettere in difficoltà gran parte dell’umanità, a partire da quelli che dei soldi fanno la ragione della loro vita.
Santa Rita ci insegna questa sera a non perderci la vita accanto a Cristo Risorto nella Gerusalemme del Cielo. C’è di più e c’è di meglio delle tribolazioni di questo mondo. Ci si appropria del dono del Signore che è la vita beata, se, giorno per giorno, impariamo a fare la nostra parte nelle condizioni in cui siamo.
Rita, giovane sullo scoglio della preghiera, è bellissima sposa del cavaliere più ammirato del territorio, madre felice, ma anche, tutto di seguito, vedova senza dramma. Certa di ritrovare Paolo in Cielo, assieme ai figli. Capace di continua conversione, fino a sfidare e vincere perfino il cancro con la forza della fede.
Chi va in Cielo? Ci vanno quelli che, nel girotondo dei giorni, sanno amare tutti, perdonare le offese, offrirsi a Dio negli umili gesti quotidiani per recuperare le ferite del tempo, in mezzo agli uomini e alle donne, dove ti è capitato di vivere: “beati gli operatori di pace, perché di essi è il Regno dei Cieli”[6].
[1] San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II IIae, q. 188, a. 6.
[2] Sant’Agostino, Le Confessioni, X, 6
[3] Cfr. “La Beata Rita da Cascia divenne in vita partecipe della Passione di Cristo, sopportò una delle sue spine. Brillando per molti miracoli, diventa di giorno in giorno di luce più viva”, iscrizione sulla Cassa Solenne
[4] Cfr. Col 1, 24
[5] Sant’Agostino, commento al Vangelo di San Giovanni, Tratt. 124, 5, 7, Opera Omnia, Città Nuova, XXIV, II
[6] Mt 5, 9