Omelia dell’Arcivescovo nella Chiesa Cattedrale

Domenica del Buon Pastore

3 maggio 2020

03-05-2020

IV Domenica di Pasqua

 

Fratelli, sorelle nel Signore:

Iddio ci dia pace in questo giorno santo!

  1. Da Babele e Babilonia alla Gerusalemme del Cielo

Umile gregge è la Chiesa di cui Cristo è il Pastore. L’astuzia del serpente antico è di dividere; il progetto di Dio è di riunire tutti, farci consapevoli che siamo tutti persone umane, chiamati a riconoscerci fratelli.

Questi mesi di terribile prova ci hanno fatto più attenti agli altri, come non avveniva da tempo. Non vogliamo che sia la paura del contagio a farci ricordare che ci sono anche gli altri.

La Parola di Dio è una sola e fissa la sofferenza dei popoli con immagini plastiche: quando Caino, dopo aver ucciso per invidia suo fratello Abele, non trovò pace: fu costretto a vagare per il mondo; quando a Babele costruirono una torre per sfidare il Cielo e finirono per non capirsi più tra di loro; quando Israele antico, per il peccato d’infedeltà, che aveva frantumato il popolo, facendolo agire senza virtù, come i popoli vicini e fu trascinato schiavo in Babilonia.

Un’antica icona delle Chiese d’Oriente, detta delle due torri – quella di Babele e quella della Gerusalemme del Cielo – esprimono la Chiesa, che è in cammino, uscendo dalla cultura della contrapposizione e dell’incomunicabilità, verso la Gerusalemme del Cielo, che è il progetto di Dio sulla storia dell’uomo: radunare, non escludere, superare i contrasti e le divisioni. La forza per proseguire il cammino l’antico scrittore di icone la rappresentava con la tenda, sotto la quale il popolo di Dio, in cammino, si rinfranca con l’Eucaristia, fedele al suo Signore: “fate questo in memoria di me”[1]

Radunare tutte le persone nel popolo di Dio. Ci rendiamo ben conto del male fisico e come è contagioso e pericoloso. Da tempo pare che non ci vogliamo accorgere che vi è un male oggettivo, frutto di una cultura che ha interesse solo al mantenimento di sé, dei suoi privilegi, delle sue condizioni di vita.

Forse anche la Chiesa ha attutito la sua voce profetica, di fronte a questo male sottile e pernicioso, che toglie la felicità all’uomo e lo fa schiavo delle consuetudini dell’Occidente, come se fosse la condizione più valida per soddisfare il desiderio di umanità che abbiamo in noi.

  1. Uscire, riaprire il cammino che non può essere solo atto fisico ed esteriore

Siamo tutti convinti che non possiamo rendere vana questa dura prova di mesi di residenza quasi coatta, scatenata dalla paura del contagio. Chiediamoci cosa è successo, ma soprattutto cosa volgiamo e possiamo fare d’ora in poi.

Quando il 24 agosto 410 Alarico espugnò Roma fu uno degli eventi più traumatici della storia antica. La più potente capitale dell’antichità, per tre giorni, fu in mano agli invasori che depredarono templi, luoghi pubblici e case private. I grandi del tempo si disperarono. Agostino d’Ippona, invece, scrisse il De civitate Dei, promovendo una delle più significative ricostruzioni culturali della storia.

Un progetto. Sì i cristiani anche oggi si trovano ad elaborare un progetto. Non basta riaprire, rimettere insieme i segni della nostra abituale condizione di vita, come era fino alla pandemia: “Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca”[2]. Occorre ora rimettere insieme, costruire, non già l’arca, ma un progetto di vita nuovo, dove la Parola di Dio non è per noi cristiani solamente, ma per tutti: occorre imparare a superare le divisioni e ritrovare nuova solidarietà.

Non lasciamo che le ragioni del potere e della lotta dei più forti ci tangano lontani da un cammino salutare. Tocca costruire il nuovo, possibilmente con l’aiuto di tutti, senza lasciarci spaventare dalle fatiche, dalle sofferenze, dalle difficoltà, che sono inevitabili.

L’antica tradizione cristiana propone l’uovo come simbolo di Pasqua: un ciottolo apparentemente morto, come i sassi caduti dalle cave di marmo e arrotondati dalla corrente dei terrenti della mia Versilia.

A tempo giusto, se fecondo, ogni uovo fa uscire la vita che aveva dentro nascosta. Il pulcino per venire fuori deve necessariamente rompere il guscio. Se all’interno, tanto nascosta che nessuno da fuori può vederla c’è la vita, a tempo giusto si palesa.

In questo anno terribile in cui per esercitare la carità e non diffondere l’epidemia, abbiamo accettato di sospendere anche la Pasqua, siamo messi alla prova, cari cristiani, sul nostro contenuto, se abbiamo davvero qualcosa da dire.

  1. Il buon Pastore

Nella catacomba di Domitilla il Buon Pastore non indietreggia, anche se è attaccato dal lupo rapace. Nella pagina di Giovanni 10, di cui abbiamo ascoltato oggi una prima pericope, Gesù spiega la ragione della sua venuta in mezzo a noi, per radunare il gregge di Dio, che era stato disperso.

Certamente Gesù Buon Pastore per riunire la famiglia di Dio, non ha evitato lo scontro con il male e la morte per crocifissione. Il disegno del Padre di riunire tutta l’umanità è più importante del Getzemani: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”[3].

            Il Signore ha voluto che la sua missione di Buon Pastore rimanesse presente nella Chiesa. In modo particolare questo compito è affidato con il Sacramento dell’Ordine ad alcuni di noi. Il ruolo del prete nella comunità cristiana non è sociologico. Per essere prete ci è chiesto di vivere questo mandato del Signore come una storia d’amore, che comporta il sacrificio di sé.      L’Eucaristia non è virtuale, ma reale. Quello che dici all’altare sei chiamato a viverlo giorno per giorno. La tentazione di dormire nel momento della prova afflisse anche gli Apostoli che Gesù aveva portato con sé nell’Orto degli Ulivi: “Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: «Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? 41 Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”[4] 

Il sacerdozio non ci dispensa dalla fatica e, quando necessario dalla lotta, non ci esime dal peccato. Quello che Gesù rimprovera a Pietro è un monito che si ripropone in ogni stagione della Chiesa: dormire è essere assenti.

Mentre questa pandemia si avvia alla fine non ci capiti di dormire, di essere assenti dagli eventi che coinvolgono tutti.

L’Eucaristia non può essere virtuale, non si esaurisce in un rito che possiamo trasmettere per televisione, in mancanza di meglio. L’Eucaristia chiede partecipazione: è celebrata dalla Chiesa e senza la Chiesa perde di concretezza: senza il popolo non esprime la realtà che significa. È il cibo dell’anima: senza cibo si muore. Non è questione di effetti, di precetti, di consuetudini: ma è rimettere in questione noi stessi: sacerdos propter populum.  A noi preti è chiesto di giocare noi stessi nel distacco dal danaro, nel celibato per il Regno dei Cieli, nella cura del popolo che ci è affidato. Ad ogni fedele che partecipa alla comunione, non è dato un simbolo, ma lo si fa partecipe dell’Ultima Cena. L’Eucaristia rimedia i peccati e aumenta la Grazia. Fa presente Gesù nella Santa assemblea.

Non basta vedere da lontano. Non è azione del prete, ma di tutto il popolo di Dio: occorre esser partecipi. Non sei chiamato a vedere il tesoro che ti è offerto, ma ti è chiesto di prenderlo, di farlo tuo. Il Sacramento non è un simbolo, ma esprime nel segno reale ciò che significa.

Il questo giorno in cui tutta la Chiesa prega per i suoi sacerdoti presenti e futuri, anche noi vogliamo che il nuovo da costruire sia fatto anche di generosità e d’offerta di sé.

È Dio che chiama al ministero, che ci stima degni di ciò che ci affida. Preghiamo per tutti i giovani della nostra Chiesa, per quelli che Dio chiama a diventare partecipi del suo sacerdozio, perché tutti i chiamati rispondano e perché malgrado la nostra fragilità ci sia data la grazia di perseverare nel servizio al popolo di Dio.

[1] Lc 22,19

[2] Mt 24,37-38

[3] Mc 14,36

[4] Mt 26,40-41