I – L’età medievale
Secondo i dati forniti dalla letteratura agiografica, i protomartiri Lorentino e Pergentino sarebbero caduti vittime della persecuzione di Decio intorno al 250; il primo vescovo sarebbe stato san Satiro alla metà del IV . e il suo successore san Donato sarebbe stato decapitato al tempo della persecuzione di Giuliano l’Apostata (7 agosto 362); il suo successore san Gaudenzio avrebbe infine completato l’evangelizzazione della città.
Questa ricostruzione così puntuale è tardiva, posteriore di diversi secoli ai fatti narrati, ma gli studiosi sono concordi nel datare al IV . o al massimo al III la nascita della diocesi.
Un’autorevole lista vescovile (l’unica rimasta per le diocesi toscane), trasmessa da una copia dell’XI sec., conta ventidue vescovi fino al primo documentato con certezza, Cipriano, nel 680.
In epoca tardoantica e gota sorse e si sviluppò l’organizzazione della cura d’anime nelle campagne: secondo Angelo Tafi, delle più di settanta pievi documentate nella diocesi alla fine del XIII . (RDI), oltre quaranta sarebbero di origine paleocristiana (IV-VI sec.), un po’ meno di trenta altomedievali (VII-X sec.).
La diocesi aretina nel Medioevo era vastissima, la più ampia della Toscana, sottoposta direttamente alla Sede apostolica.
Intorno al 599 Arezzo cadde in mano ai longobardi.
L’invasione determinò il trasferimento della sede vescovile dal centro cittadino alla non lontana collina di Pionta, dove si trovava la tomba del vescovo san Donato.
Intorno al suo patronato il vescovato aretino si riorganizzò e si definì di fronte al popolo invasore: a questo periodo risalgono i testi agiografici (passiones) dei martiri aretini.
Alla metà del VII . si registra il primo atto della vertenza con il vescovo di Siena per la giurisdizione su una serie di pievi di confine che gli aretini avrebbero occupato nei primi tempi dell’invasione longobarda, quando il vescovato di Siena era stato temporaneamente soppresso; la vertenza fu risolta una prima volta nel 714 su mandato del re Liutprando, ma continuò nei secoli successivi con alterne vicende fino al 1220.
Gli imperatori carolingi cominciarono a concedere ampi benefici e immunità ai vescovi aretini, facendoli loro vassalli e dando vita a un potere politico che sarebbe cresciuto regolarmente nel corso dei secoli.
Nell’840 il vescovo Pietro istituì presso la cattedrale il collegio canonicale, fulcro di vita comunitaria e di istruzione scolastica.
Degna di ricordo è poi l’attività del vescovo Giovanni (865-900), teologo e uomo politico di primo piano, che fondò il monastero vescovile delle sante Flora e Lucilla (Santa Fiora) presso Olmo (Arezzo).
Il X . vide la crescita del monachesimo aretino, in particolare di Santa Fiora, e la crisi della canonica di San Donato, privata del sostegno economico per la vendita o la locazione delle proprietà.
In questo periodo e nel secolo seguente il vescovato aretino fu regolarmente assegnato a personaggi ligi alle case regnanti di Sassonia e di Franconia.
Gli anni a cavallo del Mille videro la fioritura del monachesimo benedettino.
A quell’epoca infatti risalgono i monasteri di Santa Maria a Badia Prataglia, Santa Trinita in Alpe, San Gennaro a Capolona, San Salvatore della Berardenga, San Salvatore in Silvamunda, l’eremo di San Salvatore a Camaldoli e molti altri.
Tra questi il più importante fu l’eremo di Camaldoli, fondato da san Romualdo poco prima del 1027, dove nel 1080 furono redatte le prime Consuetudini a cura del priore Rodolfo I; a partire dall’ultimo quarto dell’XI . Camaldoli si pose a capo di una vasta e potente congregazione, diffusa in tutta l’Italia centrale.
In città la vita religiosa si svolse soprattutto a Pionta, la cui canonica fu rifondata dal vescovo Elemperto poco prima del Mille.
Essa divenne ben presto un centro di studi di prim’ordine, attivo nel campo della liturgia e dell’agiografia, del diritto canonico e della musicologia (con Guido Monaco).
Sotto i vescovi Adalberto (1014- 1023) e Tedaldo (1023-1036) il centro sacro di Pionta fu splendidamente ricostruito a imitazione dei modelli imperiali ravennati ed ebbe come fulcro il «duomo vecchio» di San Donato.
Nel nome del santo patrono il vescovato riuscì a raccordare intorno a sé l’aristocrazia del comitato e a costruire un’embrionale idea di coscienza civica; su queste basi e sul possesso di una notevole ricchezza fondiaria il vescovo Arnaldo (1052-1062) pervenne a ottenere l’ufficio comitale, primo caso in Italia.
Egli rimase prudentemente ai margini della riforma gregoriana, ma alla fine del secolo il vescovo Costantino (1062-1096) e la città intera furono coinvolti nella lotta per le investiture, che sembrò provocare la crisi della scuola canonicale di Pionta.
Dopo la metà dell’XI . alla canonica di Pionta si affiancò quella della pieve cittadina di Santa Maria, che entrò in concorrenza con essa legandosi al nascente comune (la prima attestazione dei consoli risale al 1098).
Proprio il comune si pose come principale antagonista del potere vescovile, esautorandolo progressivamente: nel 1110 e nel 1130, assalita e distrutta la cittadella di Pionta, il presule fu costretto a risiedere in città; nel 1164 il vescovo Girolamo sottoscrisse per l’ultima volta come episcopus et comes di Arezzo.
Negli anni 1194-1197 truppe comunali distrussero il monastero di Santa Fiora, costringendo i benedettini a risiedere in città, e nel 1214 dettero la rovina al cenobio di Capolona.
Come risultato del processo di centralizzazione pontificia avviato dalla riforma gregoriana, alla morte del vescovo Sigfrido (1104) la città e il popolo di Arezzo (o piuttosto l’imperatore) persero ogni diritto nell’elezione del presule, passata alla Sede apostolica.
Ciò si verificò per la nomina del vescovo Gualtieri da Benevento (Gregorio, 1105-1114), la cui vita scandalosa si concluse con la deposizione.
Più tardi il vescovo Girolamo (1142-1175) abrogò ufficialmente la pratica della concertazione laicale nell’elezione vescovile.
Nel XII sec., caratterizzato dalla mancanza di figure esemplari di riferimento, il vescovato fu impegnato nei contrasti con il comune cittadino e con la chiesa di Siena; possiamo ricordare solo la figura del vescovo Eliotto (1176-1186), che compì una visita pastorale e riunì un sinodo diocesano.
Il XIII . vide invece la fioritura della vita religiosa.
Si regolarizzarono le pratiche dei sinodi e delle visite pastorali (di quella di Guglielmino Ubertini si conserva in parte la relazione).
Intensa fu la presenza di nuove forme di vita religiosa: nel secondo decennio del secolo giunsero ad Arezzo i francescani (nel 1214 e nel 1224 san Francesco era in città) e i templari, nel terzo i predicatori, poi i serviti, nel 1257 gli agostiniani; ma sono anche attestate presenze ereticali e comunità spontanee di penitenti che i vescovi si sforzarono di regolamentare.
In tutto questo il vescovato assunse un ruolo dirigente, in particolare con Guglielmino Ubertini (1248-1289): nel 1249 egli fondò l’ospedale di Santa Maria del Ponte, nel 1250 stabilì la pace tra le canoniche di Pionta e della Pieve, nel 1260 consentì la costruzione del convento francescano della Verna, nel 1263 approvò la fraternita cittadina di Santa Maria della Misericordia.
In seguito al trasferimento della sede episcopale entro le mura cittadine (1203) furono eretti i nuovi edifici vescovili: il palazzo (1256) e la cattedrale (dal 1277), mentre per Pionta cominciò una lunga decadenza.
A questo secolo risalgono anche i primi santi locali dopo l’epoca paleocristiana: i beati Angelo Tarlati (†1251) e Benedetto Sinigardi (†1280), francescani; papa Gregorio X (†1276 ad Arezzo e venerato nella cattedrale), la beata Giustina Bezzoli (†1319, osb), a Poppi il beato Torello, eremita (†1282), a Cortona il beato Guido, francescano (†1247) e santa Margherita (†1297), divenuta patrona della città.
Nel Trecento i presuli esercitavano ancora funzioni squisitamente politiche.
In particolare il vescovo Guido Tarlati (1312- 1327) fu eletto nel 1321 signore della città.
La sua attività religiosa fu intensa: autorizzò la formazione di compagnie religiose laicali (nel 1316 quella della Santissima Trinità), approvò la riforma benedettina di Monte Oliveto (1319) e guidò con fermezza il clero diocesano, ma ancora maggiore fu il suo impegno militare e politico in favore del ghibellinismo italiano, tanto che nel 1325 papa Giovanni XXII lo scomunicò e lo depose.
Ma, persistendo il Tarlati nella sua attività, per punizione la diocesi aretina fu privata della parte meridionale (cinque pievi), che costituì la nuova diocesi di Cortona.
Il periodo successivo alla morte del vescovo Tarlati vide l’infuriare delle lotte interne e l’indebolimento del Comune, fino alla vendita della città, più volte saccheggiata, a Firenze (1384).
In questa situazione anche il vescovato andò perdendo progressivamente il ruolo di centro di potere e dalla seconda metà del XIV . i vescovi eletti smisero di risedere ad Arezzo.
Per di più, dopo il 1384 tutti i presuli provennero da Firenze o da famiglie fiorentine e dimostrarono in genere scarso interesse per la loro sede.
Nel XV sec., quando ormai Arezzo era inserita nello stato regionale in formazione e si rafforzava dal punto di vista sociale, economico e culturale, alcuni presuli emersero per impegno personale e dedizione verso la diocesi: Francesco da Montepulciano (1413-1433) nel 1421-1424 compì una visita pastorale, di cui è rimasta una parte della relazione, Lorenzo Acciaioli (1461- 1473) e Gentile de’ Becchi (1473-1497) svolsero un’importante azione riformatrice e moralizzatrice.
Nel 1428 san Bernardino, venuto a predicare in città, dette il via alla costruzione della chiesa di Santa Maria delle Grazie, abolendo un culto pagano delle acque ancora in vita.
Si moltiplicarono le compagnie laicali e nacquero nuovi conventi; una folta schiera di santi locali, per lo più appartenenti agli ordini mendicanti, andò ad arricchire il santorale diocesano.
La storia istituzionale della diocesi medievale si chiude con un’altra perdita territoriale, allorché nel 1462 papa Pio II creò la diocesi di Pienza (Corsignano) e Montalcino sottraendo ad Arezzo una decina di pievi.
Nel 1515 papa Leone X staccò da Arezzo la diocesi di Borgo Sansepolcro (operativa dal 1520).
II – L’età moderna
Nella seconda metà del Settecento la diocesi aretina contava meno di centomila abitanti, dei quali circa settemila vivevano nella città: nel corso di circa un secolo si era verificata una modesta crescita, dopo le forti crisi di mortalità che avevano colpito il territorio nel corso del Seicento.
Le istituzioni ecclesiastiche della Chiesa secolare avevano conosciuto, non diversamente da altre località dello «Stato Vecchio» fiorentino, quel consolidamento, che è attribuibile al buon funzionamento delle magistrature di controllo del governo mediceo, piuttosto che alla disciplina ecclesiastica della Controriforma: nella cattedrale di San Donato, per esempio, anche il numero delle prebende canonicali era aumentato, passando dalle diciotto del 1677 alle ventisei della metà del Settecento.
Così pure, nello stesso arco di tempo, in città i conventi maschili erano passati da sette a undici (nel complesso della diocesi vi erano una sessantina di case regolari, fra cui la sede del «Maggiore » di Camaldoli) e i monasteri femminili da dodici a tredici (e altrettanti fuori della città), mentre la cura d’anime era assicurata da tredici chiese parrocchiali, delle quali una collegiata.
Sempre alla fine del Seicento, nella diocesi vi erano quasi quattrocentocinquanta chiese parrocchiali (ridottesi di un centinaio nell’arco di un secolo), fra le quali si contavano una settantina di pievi battesimali (con una larga presenza di patronati laicali); ma, soprattutto, vi erano alcune centinaia di cappellanie e benefici ecclesiastici semplici, che consentivano ai chierici locali di avere il «titolo» sufficiente per conseguire gli ordini maggiori e le rendite per garantirsi il mantenimento a vita.
Nel complesso le strutture della Chiesa aretina erano servite, nel 1765, da quattrocento chierici, un migliaio di sacerdoti, 578 religiosi e 870 monache.
Con la sua rendita di circa cinquemila ducati fiorentini l’anno, la cattedra episcopale aretina era sicuramente un ufficio appetibile anche per chierici d’elevata estrazione sociale, ai quali, peraltro, erano aperte le porte anche per ulteriori migliori sistemazioni (come la ricca sede pisana, o un cardinalato).
Certo è che per tutta l’età moderna, con l’eccezione del generale dei serviti Stefano Bonucci (un aretino, che fu vescovo dal 1574 al 1589), l’ufficio vescovile fu appannaggio di fiorentini (talora già canonici del duomo) o di esponenti di famiglie alleate o clienti del governo mediceo.
Tuttavia, anche i chierici aretini ebbero la possibilità di salire i gradi della gerarchia ecclesiastica nella Toscana granducale, dove ottennero non poche cattedre episcopali.
Questa presenza di forestieri non impedì alla diocesi di avere una guida costante da parte di prelati di buona levatura culturale e, spesso, anche di continuo impegno personale, come Tommaso Salviati alla metà del Seicento (1638-1671), o il dotto giurista volterrano Benedetto Falconcini (1704-1724), che portò anche qui quelle missioni popolari gesuitiche, che già aveva sperimentato con successo in Valdinievole.
Del resto, in età lorenese, meritarono giudizi lusinghieri sia Carlo Filippo Incontri (1732-1753), sia Niccolò Marcacci (1778-1799), già vescovo di Sansepolcro: di quest’ultimo, Pietro Leopoldo lasciò scritto che era «esemplare, dotto, santo, savio, onesto, moderato, prudente».
Nella seconda metà del XVI sec., a parte l’usuale saccheggio delle risorse ecclesiastiche che non la risparmiò, la diocesi di Arezzo subì la perdita definitiva della terra di Montepulciano, che però da tempo era stata resa autonoma dalla sua chiesa madre.
Quanto alla Controriforma, l’azione disciplinatrice dei vescovi Stefano Bonucci e Pietro Usimbardi (1589-1611) fu preceduta da un evento che provocò un forte turbamento: l’arrivo delle notizie sul nuovo regime monastico femminile voluto da papa Pio V.
Il nuovo regime, che sarebbe stato basato sul binomio della vita comune e della clausura carceraria, suscitò anche ad Arezzo, come altrove, una viva ripugnanza da parte delle monache e dei loro parenti: qui si ribellarono apertamente le monache di San Marco, di Santa Margherita e della Santissima Trinità, che giunsero a forme di rifiuto dei sacramenti nel vano tentativo di evitare il destino che le soprastava.
Durante l’episcopato del Bonucci, poi, si ebbe la visita apostolica di Angelo Peruzzi, vescovo di Sarsina, che scoprì nella diocesi di Arezzo le stesse situazioni irregolari presenti in tutte le altre Chiese italiane: dai canonici cittadini detentori di benefici curati nella campagna ai parroci non residenti, dall’assenza di insegnamento della dottrina cristiana alla sporadicità delle prediche nella cattedrale e alla mancanza del seminario.
Il Bonucci poté fare ben poco, anche perché era più un dotto che un uomo di governo, come invece fu il suo successore, quel Pietro Usimbardi da Colle di Val d’Elsa che poteva fare affidamento anche sullo stretto legame di collaborazione che lo univa a Ferdinando I de’ Medici.
L’Usimbardi, a cui si devono le più importanti Costituzioni della Chiesa aretina in età moderna, affrontò i problemi più delicati: dai contrasti fra i canonici del duomo e quelli dell’altra collegiata cittadina (la pieve) all’imposizione di una disciplina ecclesiastica più rigorosa (sebbene richiedesse più la sua osservanza formale – per non dare scandalo – che un’adesione intima), dall’insegnamento della dottrina cristiana al popolo alla regolamentazione della vita monastica femminile secondo le nuove normative romane.
Ma neanche un uomo così potente riuscì a fondare il seminario, perché il clero secolare gli impedì di utilizzare a questo scopo beni e rendite di sua pertinenza.
Questo fu infine realizzato dal vescovo Salviati, che però dovette ricorrere alla tassazione dei benefici parrocchiali.
Del resto, per tutta l’età moderna non si spensero i conflitti fra i due corpi ecclesiastici cittadini del duomo e della pieve, mentre nel clero secolare riemersero assai presto tutte le forme tradizionali delle «pericolose conversazioni» con i laici, a partire dalla trascuratezza negli abiti clericali e dalla scarsa frequentazione dei chierici ai sacramenti.
Provò a restaurare la disciplina controriformista il vescovo Giuseppe Ottavio Attavanti (1683- 1691), ma il suo eccessivo rigorismo – certo consono al clima dell’età innocenziana – dispiacque a chierici e laici.
Ormai s’iniziavano a sentire i primi segni di una secolarizzazione della società, che si sommavano da una parte a tutti i rischi della «clericalizzazione» (un numero elevatissimo di ecclesiastici, ma di bassa qualità personale, quanto a dottrina e a comportamenti) e di un devozionalismo rivolto soprattutto verso la Madonna e i santi, dall’altra al serpeggiare di nuove idee religiose, non sempre ortodosse (a partire dal quietismo e dal giansenismo).
Nei decenni successivi, i vescovi impegnarono e spronarono i parroci e i curati nell’opera d’indottrinamento dei fedeli secondo i principi tradizionali della Chiesa, di controllo dei costumi, di allontanamento dalle «tentazioni » della società dei lumi.
Eppure, anche il Marcacci, che pure rifiutò fermamente di aderire al riformismo religioso di Scipione de’ Ricci, non ebbe difficoltà a collaborare con il granduca Pietro Leopoldo nell’attuazione delle riforme «economiche » da lui imposte alla Chiesa locale.
III – L’età contemporanea
La marcata natura di Chiesa di pertinenza laicale, legata alla territorialità del capoluogo regionale, di fatto contribuì a rendere la diocesi particolarmente sensibile alle pressioni del centro, sia in senso politico ecclesiastico che in quello religioso.
A cavallo dell’età contemporanea, Arezzo giocò un ruolo particolare nella storia delle «insorgenze» cattoliche del XVIII . La città prestava una particolare devozione alla Madonna del Conforto, una immagine di terracotta raffigurante la Madonna di Provengano che il 15 febbraio 1796, mentre l’area aretina era sconvolta dallo sciame sismico di un terremoto, fu vista da alcuni testimoni mutare colore e divenire luminosa.
Il vescovo Niccolò Marcacci, dopo una inchiesta, riconobbe il prodigio consentendo il culto che divenne in breve una delle espressioni devozionali più intense della religiosità civica e a un tempo emblema di quella iperdulia mariana che, profondamente radicata anche nelle campagne assieme ai culti locali, aveva costituito uno degli obiettivi delle riforme propugnate dagli ambienti «filogiansenisti» del clero «progressista» dell’età lorenese.
Fu in difesa di questa immagine che al grido «Viva Maria» nel maggio del 1799, si catalizzò una violenta reazione al governo napoleonico che, nel dilagare dell’insurrezione, dapprima a Siena e infine a Firenze, fece vittime innocenti tra ebrei e «progressisti» filo-francesi: avevano agito come catalizzatori della rivolta le gravi condizioni economiche del momento – segnato dall’estrema miseria di un mondo contadino falcidiato dalle crisi annonarie e ontologicamente ottuso nei confronti del dispotismo riformatore francese – ma anche il profondo radicamento della devozione mariana che dal XV . aveva catalizzato sotto il manto di Maria il polisemico sistema di intercessori della religiosità medievale.
Per i meriti acquisiti in questa insurrezione, Arezzo fu elevata dal granduca Ferdinando III (il 10 febbraio 1800) al rango di provincia: dignità che non impedì, all’indomani della vittoria francese a Marengo, che i napoleonici tornassero a occupare la città dopo averla espugnata a cannonate e devastata (18-19 ottobre 1800).
Quattordici anni dopo, al rientro di Pio VII e Ferdinando III, il nuovo vescovo, l’aretino Agostino Albergotti, tornò a rimarcare la venerazione per l’immagine di Santa Maria del Conforto, sostenendo che «è finito per i giusti il tempo della prova».
In questa tenace adesione degli aretini alle proprie devozioni si snoda la storia contemporanea della Chiesa locale, attraverso le vicende storico-nazionali che vedono il governo locale sempre schierato su posizioni fortemente intransigenti in concreta ed evidente sintonia con la linea interpretativa del papato.
Sono linee forti e fortemente sostenute da episcopati lunghi e significativi: Agostino Albergotti (1802-1826), Attilio Fiascaini (1843-1860), Giuseppe Giusti (1867-1894), Giovanni Volpi (1905-1919) e infine Emanuele Mignone (1920-1961).
Ciò in parte spiega la connotazione marcatamente conservatrice del governo ecclesiastico del resto sostenuta da una realtà socio-economica rurale e commerciale assai lontana dalle suggestioni innovative qua e là pur intraviste nella regione.
La Chiesa di Arezzo ha contribuito a dare continuità alle tradizioni religiose locali sulla scia della loro nazionalizzazione, che per la Chiesa significa soprattutto utilizzo dei culti e delle devozioni in chiave politica e sociale al fine di rivendicare l’antico ruolo e l’antica funzione della religione e dunque della Chiesa come garante della stabilità sociale e della solidità del regno, in una visione teocratica e ierocratica che non aveva pari in tutta la regione.
Solo gli eventi connessi in qualche modo ai processi di secolarizzazione e quelli novecenteschi legati ai conflitti mondiali contribuirono a smuovere il quadro organizzativo e generalmente ideologico di impostazione generale.
Si trattò allora di aggiornare gli schemi di lettura del mondo moderno, mutando linguaggio e modalità descrittiva: la sostanza rimase però immutata.
In questa luce acquista particolare rilevanza il lungo episcopato di Emanuele Mignone, che partendo dalla crisi postbellica attraversò il fascismo, la seconda guerra per fermarsi alle soglie del concilio Vaticano II senza aver maturato una chiave di lettura capace di interpretare i nuovi fenomeni sociali ed economici in termini non più politici bensì religiosi.
Le sedi di Arezzo, Cortona e Sansepolcro, unite, in persona episcopi, già dal tempo di Giovanni Telesforo Cioli (1961-1983), furono accorpate in un’unica diocesi il 30 settembre 1986.
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FONTE
Le diocesi d’Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.
Vedi anche la pagina dedicata alla storia della vita consacrata in terra di Arezzo.