Festa di San Benedetto

11-07-2020

Venerati figli di San Benedetto,

cari monaci nostri di Camaldoli:

siamo venuti ancora al Fonte Bono,

per abbeverarci alla vostra esperienza di vita.

 

  1. “Eum quem quasi in ingressu mundi posuerat retraxit pedem”[1]

 

La profezia del carisma benedettino si esprime nella capacità di coraggiosa alternativa rispetto al pensiero dominante. Poco importa che l’interesse dei contemporanei sia rivolto ad un insieme di scelte che affascinano la maggioranza. Neppure le ragioni della convenienza personale influenzano l’uomo libero che si avvia sulle orme del Patriarca del monachesimo occidentale.

Benedetto saggiò il mondo romano come chi avanza un piede per prendere possesso di un territorio e se ne ritrae, perché ne coglie le contraddizioni intrinseche. La tradizionale lettura moralistica del “De vita et miraculis venerabilis Benedicti Abbatis” esprime solo una parte della scelta del giovane di allora. Gli  abrupta vitiorum che colse non furono solo illeciti comportamentali, ma anche le incongruenze della cultura corrotta del tardo impero, che rifiutò ritenendola come fiori incapaci di produrre frutti.

La formazione giovanile alla scuola dei monaci siriaci di Sant’Eutizio presso Norcia, gli consentì di comprendere che la cultura dominante del tempo non fosse l’unica proposta possibile e neppure la migliore. Il sistema valoriale di cui Roma per alcuni secoli era stata depositaria, si era irrimediabilmente assottigliato. Ad un giovane motivato che si affaccia al mondo -allora come ora- non interessa la ricerca supina di trovare posto per sé nella società. Non basta neppure il ricordo di glorie passate, se non c’è un progetto per cambiare il mondo, così come appare ai suoi occhi. Roma nel VI secolo era pur stata patria di Martiri e di Santi, ma nelle complicazioni politiche ed economiche aveva rivolto altrove l’attenzione: un cristianesimo stanco e poco propositivo non attrae chi cerca il vero il giusto e il bello. È questo un tema di una struggente attualità.

Non sono le altrui fragilità umane a far “ritrarre il piede” di Benedetto, ma le distonie intrinseche che, appena giunto a Roma, gli si manifestano palesi. Benedetto cerca il futuro, mentre i giovani rampolli delle famiglie dell’Impero si accontentano del presente. Come abbiamo appena ascoltato dal Libro dei Proverbi: “Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza, inclinando il tuo cuore alla prudenza, se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio[2].

Lo stesso Gregorio Magno ci offre questa lettura dell’esperienza interiore e umana di Benedetto, attraverso la vicenda del “vaglio” appeso sulla porta delle case benedettine, “usque ad haec Langobardorum tempora super fores ecclesiae dependit”[3]. Papa Gregorio, a chi desidera addentrarsi dell’esperienza interiore di San Benedetto dà, come primo riferimento la questione del discernimento, tra ciò che è da buttare e quanto di buono che vi è mischiato e che va salvato.

Pensare e scegliere sono le attività costanti del monachesimo di San Benedetto, che sa combinare costantemente l’esse con il facere. Il primato del continuo riferimento a Dio modella la persona e si combina con un’azione costante di carità per sovvenire con il lavoro alla fatica del cambiamento del mondo. La preghiera che scandisce le ore motiva l’intervento ambientale delle “marcite” di Norcia, i misurati allagamenti che ancora oggi permettono al fiume Sordo, ricco d’acque termali di tiepida temperatura, di fornire verdura fresca per l’uomo e pascolo per gli animali, anche quando incombe d’inverno la neve sulla valle di Santa Scolastica.

Credo che sia giusto chiedere ai figli di San Benedetto, in questo territorio dove da oltre mille anni si incarna il prezioso carisma del Patriarca, d’essere ancora solerti nel denunziare il limite del pensiero dominante, dominato dalla ricerca del profitto e dal dominio dei ricchi sui poveri, dei paesi dell’Occidente secolarizzato sulle moltitudini del resto del mondo: è questo ancora esercizio del capisterium, narrato da Gregorio Magno.

Nella grotta dei pastori di Subiaco c’é una lapide antica dove decine di volte si ripete l’avverbio latino abhinc; esprime la scelta dei monaci di andare altrove, di essere – come direbbe oggi Papa Francesco – una “Chiesa in uscita”[4]. Allora i monaci furono capaci di portare, anche in terre lontane, la fede, le loro scelte di vita e le risorse per alleviare la fatica dell’uomo nel vivere quotidiano.

Mi piace leggere in questa luce l’iniziativa che questa comunità monastica ha appena intrapreso con il Convegno: “La Chiesa alla prova della pandemia”. Il Covid-19 è una terribile occasione per renderci conto che il modo di pensare il mondo, dominato dagli obiettivi economici, non è l’unico possibile e neppure il più capace per realizzare le aspettative delle generazioni giovani che avanzano e, tantomeno, la civiltà cristiana.

 

  1. “Laeta dies magni ducis, dona ferens novae lucis”[5]

          Misurarci oggi con la comunità di Camaldoli è per la Chiesa aretina un significativo momento di ricerca di quel “novae lucis” che l’antica sequenza ha coniato per la Messa in onore del padre dei monaci. È una duplice sfida per la comunità monastica e per quanti ad essa rivolgono lo sguardo, attento e pieno di aspettative. Per voi monaci celebrare quest’oggi il carisma è offrire, nel linguaggio comprensibile alla generazione attuale, la luce che più volte siete stati, nel passato, capaci di produrre: luce che illumina, cioè mostra la strada da percorrere, luce che rallegra, conforta, offre sicurezza.

Il monaco cinquecentesco che compose il ritmo della sequenza attribuisce a San Benedetto la capacità di promuovere una categoria impagabile, la novitas. Già l’Apostolo Paolo ci aveva indicato questo obiettivo, come effetto della adesione al Cristo: “avete svestito l’uomo vecchio con i suoi atti e rivestito il nuovo, che si va rinnovando in conoscenza ad immagine di Colui che l’ha creato…Vestitevi dunque, come eletti di Dio, santi ed amati, di tenera compassione, di benignità, di umiltà, di dolcezza, di longanimità[6].

         Cari camaldolesi, la nostra Chiesa guarda a voi perché assetata del nuovo; non già nella logica diffusa dell’effimero, e del conseguente scarto, ma al contrario nell’alternativa consistente, rispetto alla logica dell’Italia attuale. Siete capaci di far sperare un mondo possibile più giusto, senza discriminazioni, amante della pace.

Ancora una volta il ruolo del monastero torna ad essere una risorsa ideale accessibile a tutti, per riprendere l’entusiasmo di calare il Vangelo nella storia e di riscoprire, per la via dell’umiltà, la progettualità di Dio che sempre per noi cerca e vuole il bene.

 

  1. “Obsculta, o fili, praecepta magistri”[7]

 

Come noto, a seguito della controversia monofisita alcuni teologi e vari monaci favorevoli alla dottrina sostenuta da papa Leone Magno furono costretti a lasciare la loro patria e, venuti a Roma, furono accolti anche nelle valli Nursine, per proseguire la loro esperienza ascetica e monastica.

Una tradizione romana, autorevolmente riaffermata all’inizio del XX secolo, identifica in quegli uomini di Dio i primi maestri del giovanissimo Benedetto. Assieme alla sua “degnissima” sorella Scolastica – come si dice ancora oggi a Norcia – dai monaci siriaci i due ragazzi impararono i rudimenti della grammatica, ma anche il fascino per la fede e il monachesimo: un mondo decisamente più avvincente della “frigida Nursia[8], ai piedi dei monti Sibillini.

L’avvio dell’esperienza interiore di Benedetto, ormai adulto, fu come raccogliere dalla tradizione ascetica e contemplativa d’Oriente, il testimone della secolare staffetta, di ispirazione biblica, per la ricerca della perfezione.

Di questa corsa con il testimone voi, miei cari Camaldolesi, siete gli atleti che stiamo incontrando. Dalla Regula Monachorum e dalla sapienza di San Romualdo, San Pier Damiani e dei monaci che in questi mille anni hanno segnato il vostro percorso, ne esce fuori come una sorta di “discorso sul metodo”. Con la vostra tradizionale discrezione e la generosità che vi appartiene, ci fate partecipi di tanto tesoro.

Vi chiediamo di essere ancora nel nostro tempo guide nel discernimento delle coscienze e punti ideali di riferimento per quanti avvicinate. In questo monastero molti hanno imparato a distinguere tra le strutture umane della Chiesa e l’esperienza interiore di unità con il Cristo, che genera frutti prelibati e preziosi. L’Evangelista ci ha ricordato quest’oggi che il Signore ci ripete “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla[9].

Non è fare memoria delle glorie del passato. È piuttosto una richiesta di sostegno per il futuro. Aiutate questa Chiesa aretina, nella ricerca degli obiettivi con cui misurarsi, nei modi con i quali trascendere il presente, per costruire una risposta adeguata e forte a Gesù Signore.

Dopo la ogni crisi c’è la rinascita. Come all’epoca dell’ultimo conflitto mondiale e al crollo delle istituzioni, Camaldoli seppe proporre la formazione per costruire il nuovo, così oggi abbiamo bisogno di voi, del vostro carisma e delle vostre persone, che ci sono care e amate, perché la comunità Camaldolese e i singoli che ne fanno parte siano ancora una volta protagonisti attivi in questo grande cantiere, che la Divina Provvidenza ci affida, come luogo per manifestare la nostra qualità di cristiani.

[1] Gregorio Magno, Dialoghi, Libro II, 1

[2] Pr 2,1-5

[3] Idem, ibidem I, 2

[4] EG 20-49

[5] Cfr Missale 1506 Congregazione Cassinese

[6] Col 3,10.12-13

[7] Regula Monachorum, prologus, incipit

[8] P. Vergilii Maronis Aeneidos, VII, 715/16

[9] Gv 15,4-5