Omelia dell’Arcivescovo per la Festa del beato Gregorio X

Cari sacerdoti, raccolti attorno all’altare,

figli e figlie della nostra Chiesa:

il Signore ci dia pace!

 

Tre secoli or sono Papa Clemente XI riconobbe le virtù eroiche del suo predecessore Gregorio X e ne confermò il culto per la Chiesa universale. Tedaldo Visconti, nato a Piacenza, morì ad Arezzo, ospite del nostro grande Vescovo Guglielmo degli Ubertini, cui lo legava antica amicizia. Gli lasciò il tesoro di san Pietro per edificare la nuova cattedrale dentro le mura, vicino alla gente. Alla intuizione profetica di quel Papa, capace di vedere oltre gli interessi immediati dei suoi contemporanei, dobbiamo la scelta di avere la Chiesa presente nel tessuto umano della nostra storia, non arroccata su se stessa, ma spesa al servizio degli aretini.

 

  1. Un messaggio di pietra

            “La gloria di Cristo rifulge nei suoi santi”.[1] Arezzo è chiamata a misurarsi con il Beato Gregorio, uno dei grandi che nel suo passaggio in questa terra la segnò con la sua qualità, divenendo un esempio per i fedeli con la sua vita personale e con il suo magistero.

            Al suo dono dobbiamo l’edificazione della nostra Cattedrale, che è il segno visibile, “di pietra e di ferro”, in cui si esprime l’unità e l’identità della Chiesa diocesana. La scelta degli antichi fu che il Duomo, e più ancora ciò che esso significa, fosse il punto di riferimento della comunità. La collocazione nell’urbanistica medievale, fece seguito a una scelta ideologica. Diventò quasi il logo della città stessa di Arezzo. Fu il segno leggibile, il manifesto di una comunità dalla quale traiamo origine. Lo fu certamente con la sua destinazione al culto, ma non meno con la cultura di cui tuttora ripropone i temi, capaci di farci riflettere e meritevoli di essere decrittati. Dice l’Apostolo: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, […] senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri”.[2] Quale modello di Chiesa la Cattedrale vuole proporre alle generazione future? La scelta delle forme dice il progetto di Arezzo alla fine del XIII secolo. Una comunità inclusiva, alla ricerca del trascendente nelle sue linee gotiche, ma solida e ben fondata, attenta alle maggiori realtà europee del suo tempo.

            La Cattedrale fu, e forse lo è ancora, il più ampio spazio coperto della città. È come dire che c’è posto per tutti, che ciascun membro del libero comune è considerato di casa in questo luogo, che è la casa di Dio, ma anche la casa del suo popolo aretino. Costruire il Duomo in summo colle è una scelta di campo, un dialogo continuo e non interrompibile con tutti: da tutti è vista, dovunque ti poni.

            Esprime una Chiesa che non si nasconde, non si nega al dialogo, non si contrappone. È di tutti, ma è alta, sopra le fazioni. È di Pietro, cioè cattolica, ma egualmente di Donato, cioè aretina, nostra.

            Non c’è uno spazio sacro e uno profano nella vita dell’uomo, che è un fluire continuo dove i temi della Grazia e della fragilità umana si intrecciano con combinazioni inattese[3] eppure sempre degne di considerazione. Ancora abbiamo ascoltato: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo”.[4] È quella logica dell’incarnazione, per cui noi crediamo che Gesù misericordioso ci rende possibile la salvezza e supera quella condizione disumana che spesso ci affligge. Il Duomo quasi ripete la cultura dei suoi edificatori. È come dire nell’ambiente culturale di Papa Gregorio non si può escludere Dio dalla quotidianità: è presente e interpella rispettando la libertà di ciascuno, ma a tutti proponendo quel percorso ascensionale che è la dimensione della conoscenza di Dio. Il Duomo in qualche modo è il corrispettivo dello itinerarium mentis in Deum, scritto qui in pietra, come Bonaventura proprio in quegli anni lo fissò a La Verna in riflessione filosofica e mistica letteratura. Non abbiamo anche noi bisogno di elevare la mente?

            Alla fine dell’800 la nostra cattedrale fu ampiamente studiata, cercando di cogliere il senso delle sue mirabili forme. I pilastri che sorreggono queste volte a crociera ribassata sono il costante tentativo della storia umana di quadrare il cerchio; i “numeri magici” con cui furono intrecciati, inanellando geometrie contrastanti, richiamano una scienza che non si contrapponeva alla fede, malgrado le sue derive esoteriche.

 

  1. In dialogo con le culture del nordeuropa

            Le tre navi che nel Duomo rendono possibile il pellegrinaggio attorno all’Arca di san Donato e ribadiscono, con un linguaggio non consueto in Toscana, la centralità dell’altare e della Parola di Dio. L’ambone e i pulpiti evocano una coralità liturgica nordica, richiamano un pensare diverso da quello dei nostri vicini. Le sette ogive che filtrano la luce di vetrate purtroppo solo in parte rimaste aperte richiamano la scelta di edificare sul modello di Canterbury: non fu una scelta solo estetica, ma principalmente ideologica. Compresa la memoria martiriale che rammenta al fedele la nostra identità, tutto ruota attorno ai sacri misteri di Cristo presente nell’assemblea, che non rinunzia a ricordare che vogliamo essere un popolo peregrinante. Il cammino nel tempo è una virtù che gli antichi ci tramandarono, perché sapessimo resistere alla tentazione della più facile stasi, del ripiegarsi su se stessi. Con lo spazio codificato del pellegrinaggio si ripete la volontà di una Chiesa in movimento, verso la città di Dio, che si raggiunge passando per la piazza della città dell’uomo, senza fughe in presunte combinazioni devote. Ancora possediamo gli inni di san Pier Damiano, che da Camaldoli ci dona il canto per il pellegrino che entrando dalla porta di Mezzanotte (abbattuta per edificare la Cappella della Madonna del Conforto) usciva dalla porta di Mezzogiorno, verso la città, rinfrancato dalle ragioni della fede e dalla identità di questa nostra gente, che già Gregorio Magno legava alla “virtutem Donati”.[5] È il medesimo percorso spirituale dei pellegrini alla tomba del Vescovo Tommaso Becket, martire, custodito a Canterbury nello Shrine, nella stessa posizione dell’Arca di San Donato, come pure la cattedra di Sant’Agostino dove è quella nostra, come l’altare che già Vasari aveva visto nel luogo dove è attualmente: “Di luce i sacri misteri” spiegano il colore di Lazzaro resuscitato, che ancor oggi fa filtrare la luce sulla mensa dell’altare.

 

  1. Il tesoro di Papa Gregorio

            Ben più preziose delle cose furono le virtù personali di quel Papa antico, che, qui sepolto, attende la resurrezione: diventano un programma di vita anche per la Chiesa aretina che gli è legata nei secoli. Uomo segnato dal Vangelo, negli anni sempre più splendente di carità e di mitezza, fu fermo nei principi, amabile nei rapporti, facendo eco con le opere alla pagina di Giovanni che ci insegna come reggere la Chiesa universale è un atto d’amore: “Simone di Giovanni mi vuoi bene tu più di costoro?… pasci i miei agnelli”.[6] Integerrimo successore di Pietro, pronto a misurarsi con tutte le diversità del mondo, nella certezza dichiarata che lo Spirito ci invia ad ogni creatura[7].

            Il Beato Gregorio ebbe la ventura di vivere in un periodo complesso e difficile per la Chiesa: il XIII secolo. A lui toccò nei cinque anni che resse la Sede Romana di illuminare il popolo cristiano con il suo ministero e di arricchirlo con il suo magistero, segnato dalle virtù della fortezza e della speranza. Centottantaquattresimo Papa della Chiesa cattolica, fu eletto dopo 1003 giorni, nel conclave di Viterbo, dove i Cardinali non riuscivano ad accordarsi e non trovando tra di loro il successor Petri allargarono lo sguardo agli uomini di Chiesa più stimati nel mondo. Gregorio incontrò nella sua vita santi e di dottori. Si era fatto conoscere per la sua serena fermezza e la volontà di riforma dei costumi ecclesiastici. Bonaventura e Tommaso d’Aquino, i grandi del suo tempo che lo vollero loro amico, forse accrebbero il prestigio di Tedaldo. Fu designato Papa proprio lui, che neppure era sacerdote e divenne il Pastore della Chiesa universale.

            Tedaldo per difendere la Chiesa aveva viaggiato molti anni, e al momento dell’elezione, era in Terra Santa, il luogo del suo amore e del suo riferimento. Gli arrivò la notizia a San Giovanni d’Acri che il primo settembre del 1271 i cardinali lo avevano votato Papa. Corse a Gerusalemme presso il Santo Sepolcro e nella preghiera si fece carico del Sommo Pontificato per amore di Gesù. Gerusalemme diventò il riferimento della sua storia, e non per le vaghe ragioni della politica, ma per l’identità della Chiesa, nella speranza che i cristiani si ricompattassero, per la terra del Signore, che anche allora era sconvolta da mille prove come ora.

            Fece voto, prima di lasciare la terra di Gesù, sui ritmi del Salmo: “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”[8]. Ecco gli ideali di Gregorio: la funzione aggregante della terra di Gesù, Gesù vivo, risorto, presente in mezzo a noi, il riferimento immediato a ricomporre le divisioni della Chiesa. A Lione gli riuscì persino di rimettere insieme la Chiesa d’Oriente con quella d’Occidente. Il suo stile fu il pensare grande. Gregorio X è il Papa che mandò Marco Polo ambasciatore in Cina. Ricevette gli ambasciatori dei tartari e dei mongoli; strinse relazioni con quel Kublai Khan che avviò la dinastia Yuan, la grande dinastia che ricompose la Cina. Provò a far pace anche in Toscana, tra Guelfi e Ghibellini. Gli riuscì poco, ma ci provò.

            Gregorio X fu soprattutto il Papa dei poveri. Mise la scomunica a chi avesse provato a fare l’usura, in un’epoca in cui tutti si approfittavano dei poverelli, quasi come ora. Il Papa interviene e con coraggio esclude dalla comunione della Chiesa chi prova ad approfittarsi dei poveri. Vuole la riforma del clero e del laicato. Aveva tante volte nella sua vita pagato di persona. Voleva una Chiesa santa e splendente.

            Fu un Papa amabile che ci ha lasciato l’esempio per raggiungere la santità, pieno di apertura e di zelo verso i suoi contemporanei, perché tutti incontrassero Gesù.

            A noi che siamo continuamente tentati di rimanere dentro le nostre quattro valli, questo Papa che qui in Arezzo aspetta la risurrezione, ci indica la Cina, il nuovo, le diversità senza paura! Ci insegna a misurarci con un mondo diverso, più largo, meno timoroso. Ci insegna che si può far pace anche con Kublai Khan, pur di annunziare Gesù! Senza sicumera, in umiltà, come Bonaventura, il suo grande amico. Il primo coraggioso gesto da Papa fu proprio quello di farlo cardinale, il frate, il l’amico di san Francesco. Fu dare fiducia al nuovo, riconoscere la dimensione evangelica del francescanesimo. Ecco la gloria di Cristo! Non nelle guerre, ma nella ricerca di affermare e cercare il vero. Questo Papa torna a insegnarci il valore delle relazioni. La nostra città soffre di un aureo isolamento. Stiamo bene tra di noi, e si conta poco perché non si sanno fare ponti.

            Il santo che ha fondato il Duomo, lasciandoci tutto quello che aveva, ci insegna a fare rapporti. Ad avere in onore il mondo universitario, lui che passò da un’istituzione all’altra pur di ragionare di un’Europa allora tanto divisa. Oggi non siamo capaci di fare relazioni come fecero allora. I Santi ci insegnano a svegliarci, a uscire dal sonno, ad avere il coraggio delle riforme, il coraggio del nuovo. Di mettere mano anche dentro la Chiesa rimettendo la santità e il Vangelo al primo posto. Il resto viene a cascata perché dietro c’è il Signore con la sua potenza. È proprio vero: “La gloria di Dio risplende nei suoi Santi”.



[1] Benedetto XVI, Omelia del 3 giugno 2007

[2] Fil 2,3a.4

[3] Cfr Rom 7,14ss

[4] Fil 2,5-7

[5] Gregorio Magno, Dialoghi, I,7,3

[6] Gv 21,15

[7] Cfr Mc 16,15

[8] Sal 137,6