Celebrazione eucaristica vespertina nella solennità della Pasqua

Omelia del Vescovo nella Concattedrale di S. Giovanni Evangelista
20-04-2025

Viviamo, carissimi, questa bella Pasqua nell’anno del Giubileo; ed è anno che il Papa ci invita a vivere nel segno e nella scoperta, nella esperienza e nel dono della speranza: l’anno della speranza, pellegrini di speranza; e la Pasqua diventa l’annuncio, la fonte, la sorgente, la possibilità di fare esperienza della speranza e di camminare davvero nella luce della speranza.

La pagina di Vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta a cogliere quale dono la Pasqua ci regala per farci vivere la speranza; certo, sarebbe bello adesso darvi la parola, chiedervi un pò a sorpresa, qua e là: “ma tu, oggi, hai speranza nel cuore? Nel tuo cuore c’è la speranza o la tristezza? Ci sono attese buone o pesi che rendono triste il tuo cammino? La nostra vita, oggi, è capace di sperare? Ha ragioni per sperare? Abbiamo trovato la fonte della speranza e della gioia?”

La Pasqua quest’anno vuole davvero confermarci in un cammino di speranza e ci invita allora a camminare con questi due discepoli che da Gerusalemme scendono verso Emmaus.

Il loro cammino è un’immagine, un’icona, un racconto di vita; ed è il racconto anche della nostra vita.

C’è una esperienza che accompagna questi due discepoli che lasciano Gerusalemme dopo la morte di Gesù, dopo il sabato santo, per andare verso Emmaus, che raccoglie tutte le speranze perdute.

Questi due, quando incontrano il Signore, il quale chiede loro che cosa è accaduto, dicono: “noi speravamo”; c’è una speranza, ma la speranza è morta, la speranza è stata delusa e ormai persa; non è più capace di dare una direzione buona al cammino; si allontanano da Gerusalemme.

“Noi speravamo” è la parola di chi dice: “oggi non ci può essere speranza, oggi non possiamo avere in cuore e nel nostro mondo motivi per sperare”.

E non c’è solo la parola di questi due che a Gesù dicono “noi speravamo”, ma il Vangelo sottolinea e annota ancora di più che cosa c’è nel loro cuore, dicendo che a un certo punto si fermarono col volto triste.

Col volto triste… ecco, il volto triste è il riassunto, è l’immagine di una vita che non spera più; anzi, che aveva detto “noi speravamo”, cioè che è stata delusa.

Non c’è semplicemente il “non sperare”, ma c’è una speranza delusa; loro speravano che Gesù fosse il Salvatore come loro l’avevano in mente, e la morte in croce per loro è stata una sconfitta, motivo di sconcerto, una delusione e, allora, arrivano a dire “noi speravamo”.

Questo cammino dei due discepoli che da Gerusalemme vanno verso Emmaus può interpretare, a volte, il cammino della nostra vita, quando anche noi diciamo “noi speravamo”.

Quando si vive l’esperienza di una malattia che non trova soluzione, che non riesce ad avere un risvolto positivo di guarigione, viene da dire “noi speravamo”.

E non c’è più speranza quando guardiamo, oggi, ai luoghi della guerra; erano riusciti a fare la tregua a Gaza, e oggi ancora morti innocenti, una strage ingiustificata: e per Gaza, dove c’è la guerra, potremmo dire “noi speravamo”, ma oggi muoiono ancora i bambini, morti innocenti con la violenza della guerra che non ha ragioni e che miete vittime.

E potremmo pensare all’Ucraina: avevano annunciato trenta ore di tregua e veniva da dire “noi speravamo”, eppure vanno avanti i bombardamenti.

“Noi speravamo”, e allora ci fermiamo col volto triste e possiamo dire: “ma come possiamo noi sperare”?

Oppure, accade che, a volte, le famiglie, i nonni, le nonne ma anche tutta la comunità, la parrocchia, noi guardiamo ai giovani e abbiamo tante attese, tante aspettative riguardo a loro; e a volte sembra che non ci siano, che non rispondano ai nostri desideri, ai nostri progetti e, in questa avventura dell’educazione, del far crescere i più piccoli, tante volte viene da dire: “noi speravamo”, avevamo dei sogni, delle speranze e, oggi, abbiamo invece delle preoccupazioni.

Infine, per pensare a un’ultima situazione di vita, quando gli anni vanno avanti e la vita diventa più fragile, talvolta si è più soli, comincia a farsi sentire qualche acciacco, con la malattia c’è bisogno dell’aiuto degli altri, e verrebbe da dire: “noi speravamo” in una società che difendeva la vita, che la proteggeva, che la custodiva, che la accompagnava fino alla morte naturale; “noi speravamo”… e ci troviamo, invece, in una società segnata da una cultura della morte, non della vita, e che rischia di pensare che l’avanzare degli anni porti a uno scarto, non a riconoscere il valore e la ricchezza di chi è anziano e di chi ha sapienza.

Noi speravamo in una società migliore, speravamo in una società che si prendesse cura e si facesse custode della vita. Invece, tante volte produciamo morte. Produciamo morte, in particolare, quando produciamo e diffondiamo le armi: il riarmo è un alimentare la morte.

Allora, come questi due discepoli, vien da dire anche a noi: “noi speravamo”, e ci fermiamo col volto triste.

Il cuore colmo di tristezza, per questi due giovani, è che si sono sentiti lasciati soli: Gesù era morto, colui in cui speravano, in cui avevano posto la loro fiducia è nella morte, li ha lasciati soli; ecco, sentirsi soli è la ragione di ogni delusione, di ogni tristezza, di ogni perdita di speranza.

Allora è bellissimo il Vangelo, perché nell’incontro con Gesù, egli regala di nuovo a questi due giovani, a questi due discepoli, la sua presenza; cioè, Gesù dice: “io sono con voi, io ci sono” È l’annuncio che Gesù è risorto, riporta questi due discepoli alla speranza: “io ci sono, sono con voi, cammino con voi”.

Donando la Parola, raccontando in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui, attraverso il dono della Parola Gesù regala la sua presenza, la sua compagnia, cammina con queste persone, cammina con noi. Nel dono della Parola, Gesù ci dice: “io non ti abbandono, io cammino con te, io sono con te anche in tempi difficili, cammino con te”.

E poi, ancora, l’invito di questi due discepoli a Gesù a fermarsi, perché ormai sera, è ormai tardi, viene buio, e Gesù accoglie la preghiera e si ferma, entra con loro nella locanda: è una seconda immagine che dice a quei discepoli che Gesù rimane davvero con loro, li accompagna, è vicino, non li abbandona, è con loro, è presente.

Infine, a tavola c’è il gesto dello spezzare il pane e del condividerlo; quel gesto che per noi richiama il sacramento dell’eucaristia; e in quel gesto dello spezzare il pane, che è l’amore, il dono di amore, nell’amore lo riconoscono e dicono “Signore”; lo riconoscono.

Il Signore sparisce dalla loro vista, perché lascia la sua presenza in quel pane spezzato, nell’eucaristia che noi celebriamo; eppure, scomparendo dalla loro vista, Gesù rimane con loro, non abbandona, è presente, cammina in mezzo, è con la loro vita: al punto che questi due discepoli, subito, anche di notte, riprendono la strada e corrono a Gerusalemme per dire agli apostoli che hanno incontrato il Signore, che il Signore è con loro.

È questa la fonte, è la ragione della speranza; non tempi e situazioni migliori o più facili che potrebbero accompagnare la nostra vita: la vita è così com’è. quella che abbiamo, anche con le fatiche, le preoccupazioni; ma la fonte della speranza, la ragione della speranza è che il Risorto ci dice, ci annuncia, ci dona: “io sono con te, cammino con te, non ti lascio solo, accompagno la tua vita, accompagno i tuoi passi”.

Allora, come questi due discepoli, se con noi c’è il Signore si può riprendere il cammino della vita, si può tornare a Gerusalemme. Il ritorno a Gerusalemme è il cammino di chi spera, di chi ha ritrovato la gioia nel cuore, la forza, il coraggio, la voglia di annunciare, la voglia di vivere.

Amici, sperare vuol dire aver voglia di vivere; e quando si incontra il Signore, il Risorto, e lui ci regala la sua presenza e ci dice “sono con voi per sempre, ogni giorno, fino alla fine del mondo”, si può sperare, si può vivere.

È questo, carissimi, l’augurio in questa Pasqua del Giubileo: che incontrando il Signore e sapendo che è risorto, è con noi, possiamo sperimentare la speranza, il desiderio, la bellezza di vivere; oggi, giorno di Pasqua, e ogni giorno della nostra vita, fino alla fine, potremmo dire: si può vivere; e sarà davvero Pasqua e sarà speranza.

+ Andrea Migliavacca